I due presidenti hanno fatto pace durante il recente incontro Apec (Asia-Pacific Economic Cooperation)? Oppure ancora ci sono divergenze? Cosa è cambiato nelle scenario asiatico dopo l’8 settembre 2016.

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Il linguaggio e i modi di fare del presidente delle Filippine, Rodrigo Duterte, sono stati spesso alquanto impropri, in numerose occasioni. Lo erano nel passato, perché sembra che negli ultimi mesi le cose siano cambiate. Anche se la sostanza sembra sempre la stessa: la sua interpretazione della legge e delle regole internazionali sono sempre e solo a favore suo e delle Filippine. È un dato di fatto.

Sono passati 429 giorni da quell’8 settembre 2016, giorno in cui la presidenza dell’Asean (Association of South-East Asian Nations, in italiano: Associazione delle nazioni del Sud-Est asiatico) è passata alle Filippine, a Rodrigo Duterte. Il neo-presidente inaugurò il mandato in modo molto originale, rispondendo alle critiche di Barak Obama e della sua amministrazione contro il suo governo in fatto di rispetto dei diritti umani: «Le Filippine non prendono lezioni da nessuno in fatto di diritti umani, tanto meno dagli Usa che farebbero meglio a guardare a cosa loro hanno fatto nella storia». A dire il vero aggiunse anche altro, ma non è il caso di andar oltre. Il suo obbiettivo, comunque, era quello di togliersi dalla sfera d’influenza troppo stretta degli Usa. Sembra ci sia riuscito. Non ha perso occasione per proclamare la sua libertà di scelta anche nelle situazioni più difficili, come l’assalto da parte del Daesh (o simili) nella città di Malawi: quando un portavoce dell’ambasciata Usa annunciò l’intervento di unità delle forze speciali statunitensi a favore dell’esercito filippino, Duterte non mancò di smentire tale dichiarazione dopo poche ore.

Nei 429 giorni della sua presidenza, Duterte ha fatto di tutto per calmare la spinosa questione della contesa sul Mar della Cina Meridionale, in pratica disinnescando la tensione sorta tra Pechino e le altre 5 nazioni coinvolte. E questo è qualcosa che fino ad oggi nessun presidente nell’Asean aveva mai fatto. Una mossa a sorpresa, dopo i 6 anni del presidente Aquino, favorevole, troppo favorevole agli Usa e incondizionatamente ostile alla Cina. Con Duterte la musica della politica internazionale in tutto l’Asean è decisamente cambiata. Duterte, pochi giorni fa in Vietnam, di fronte alle telecamere del mondo intero, ha ringraziato il presidente Putin per il suo sostanziale aiuto nella lotta contro il Daesh, sempre nella città di Malawi; un aiuto che ha dato la possibilità all’esercito locale di «poter velocemente vincere quest’importante battaglia». La Russia ha inviato, come ha confermato il ministro delle Difesa russo, Sergei Shoigu (per la prima volta nella storia dei due Paesi) una consistente quantità di armi: 20 veicoli multiuso, 5 mila mitragliatori Kalashnikov, un milione di munizioni e 5 mila elmetti di acciaio utilissimi per proteggere le truppe dai cecchini.

Anche il Vietnam, durante la recente riunione Apec, si è riappacificato con la Cina sulla questione delle isole Paracel e Spatrly e la disputa, al momento, tra i due Paesi comunisti sembra molto ridimensionata. La Cina ha sempre dichiarato di voler risolvere la questione pacificamente senza l’intervento di elementi estranei alla questione: in pratica, senza l’intervento del Giappone e degli Usa.

Alla conclusione dell’Apec, Trump ha proposto a Duterte di «essere un buon mediatore nelle dispute e di essere disponibile a dare il suo aiuto nella questione del Mar della Cina Meridionale, se richiesto». Non si sa quanto l’invito andrà a buon fine. Ma agli analisti della regione le parole di Trump sono parse una chiara ammissione da parte degli Usa di non aver trovato un posto al tavolo di gioco, come se la partita fosse già iniziata da tempo e Trump se ne fosse accorto ricorrendo ai ripari troppo tardi. E ciò non riguarda solo la diplomazia. Nella regione gli Stati Uniti appaiono una retroguardia, ormai in possesso solo di un vecchio modo di far politica che in Asia piace sempre di meno, ora che la Cina ha potere, esperienza e forza per richiamare tutti a tavoli diplomatici e proporre, anche nelle dispute più delicate, un modello di sviluppo più condiviso. Così, mentre gli Usa stanno alla finestra, gli altri partner della regione (ed anche la Russia) sono impegnati in contrattazioni, cospicui scambi commerciali, investimenti in mega infrastrutture e ricchi programmi di scambi per il futuro.

Fonte: Città Nuova