Di George Ritinsky

 

All’Aia, arrivata alla Corte Internazionale di giustizia per difendere lei e il suo Paese, Aung San Suu Kyi, viene accusata di “prendere la difesa dei militari”. Cosa dedurne?

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È stato più che interessante ascoltare il dibattito in aula alla Corte internazionale di giustizia dell’Aia trasmesso da varie testate internazionali, che si è svolto tra il 10 e il 12 dicembre: accusa e difesa, tra il resto, in un ottimo accento inglese. Lei, l’eroina, preparatissima, emblema e figura dei diritti umani degli oppressi, che per decenni è stata conosciuta ma soprattutto acclamata in tutto il mondo, in questi ultimi mesi e giorni è stata sottoposta a un “fuoco concentrato” impressionante da parte della stampa mondiale prima e dopo l’udienza di pochi giorni fa. Già nel 2016, e poi nel 2017, in occasione di due attacchi da parte di forze terroristiche musulmane, ovvero dell’Arsa (Arakan Rohingya Salvation Army) e delle sproporzionata risposta da parte delle forze militari del Myanmar (il Tatmadaw), Aung San Suu Kyi (la chiamano Assk) è stata accusata di non prendere le difese in modo sufficiente della minoranza etnica rohingya e di non accusare i militare di crimini contro tale popolo. Ricordiamo che questa etnia non è riconosciuta ufficialmente tra le 135 presenti in Myanmar. I rohingya sono considerati, per ragioni storiche, “immigrati bengalesi”. Dopo i fatti dell’agosto del 2017, che portarono all’esodo di circa 730 mila persone verso il Bangladesh, le maggiori testate mondiali d’informazione sono state spietate contro di lei, Assk.

A mio avviso, dopo le deposizioni ascoltate all’Aia, non del tutto veritiere, non pochi hanno iniziato a cavalcare l’onda della facile accusa nei suoi confronti utilizzando evidenze a volte riportate da altri, o fabbricate ad arte, o comunque non chiare (si sospetta ad esempio che gli stessi rohingya abbiano dato fuoco a dei villaggi per costringere la gente a scappare e creare un incidente di proporzioni epocali), e molto spesso troppo simili, comuni a troppi testimoni per essere vere. Il Myanmar ha fatto presente la mancanza di forti e inconfutabili evidenze dell’accusa di genocidio nei confronti dei rohingya. Un’accusa evidentemente pesantissima, che potrebbe avere conseguenze disastrose nella fragile e giovane “quasi democrazia” del Paese, che esce da 70 anni di guerra civile. Una donna leader come lei, Assk, che ha sofferto la prigione del Myanmar, non è persona che si possa facilmente comprare. Allora, perché la premio Nobel per la pace 1991 ha accettato di “difendere” il suo Paese, di difendere cioè «coloro che per decenni l’hanno osteggiata e martirizzata? Per scopi politici?», come scrive un giornalista. Come può, chi ha conosciuto e sofferto, a fasi alterne, la detenzione dal 1989 fino al 13 novembre del 2010, difendere i suoi aguzzini?

Rally in support of Suu Kyi in Mandalay as Myanmar ICJ trial underway

Lo stato del Gambia, su mandato dell’Oic (Organizzazione islamica per la cooperazione) ha dato inizio alla procedura d’accusa per genocidio presso la Corte dell’Aia. Un’iniziativa che è stata tacciata come una macchinazione internazionale non priva di secondi fini. Le domande sono legittime: se Assk fosse colpevole, come lo erano ad esempio i leader della Serbia anni addietro, non poteva starsene a casa ed attendere il verdetto? Che necessità c’era di perdere la reputazione di fronte al mondo intero? Fa questo sforzo per assicurarsi una sicura rielezione nell’anno prossimo, in Myanmar? In realtà già da ora Assk ha la certezza del supporto della stragrande maggioranza della popolazione. Non è stata attirata all’Aia per un progetto politico né per difendere l’indifendibile. Il suo scopo è cercare di portare il Myanmar, con tutte le parti che lo compongono, compresi i miliari del Tatmadaw, definitivamente fuori dal sottosviluppo e da una profonda crisi economica che 70 anni di guerra civile hanno causato.

Le accuse mosse contro il Myanmar nei due giorni di dibattito, per la stragrande maggioranza sono basate su report su cui si nutrono molti dubbi. Poche foto, poche evidenze inconfutabili, se non le testimonianze dei rifugiati: alcune volte, troppo uguali, per sembrare vere. Non siamo di fronte, in Myanmar, a massacri di massa come a Srebreniza del 1995 che furono marcati come genocidio, dove morirono (e furono documentati) circa 8 mila musulmani ad opera di dell’esercito bosniaco sotto il comando di Ratko Mladic. A questo proposito furono emessi due giudizi: nel 2004 dal Tribunale penale internazionale per i crimini nell’ex Jugoslavia e dalla Corte internazionale di giustizia nel 2007. Verdetto: genocidio e carcere per coloro che pianificarono e perpetuarono questi crimini.

Last day of hearings on the Rohingya genocide case before UN court

Sono questi i recentissimi precedenti che lo Stato del Gambia vorrebbe far applicare anche al Myanmar e a una cerchia di militari del Tatmadaw, e poter, in questo modo, creare una zona, nello stato del Rakhine, protetta, dove i rohingya potrebbero ritornare, e formare, col tempo, una Stato musulmano. Questo è quanto si sospetta in Myanmar e che difficilmente verrebbe accettato non solo dalle autorità, ma dalla stragrande maggioranza della popolazione. Ricordo ai lettori che più di 600 mila rohingya ancora vivono nel Rakhine, e non si conosce nessuna politica o pianificazione per scacciare anche questa porzione di rohingya fuori dal paese.

Quello del Gambia appare un mandato ricevuto da certi Paesi musulmani sunniti ben più potenti del minuscolo Stato africano per focalizzare l’attenzione dell’opinione pubblica su una persecuzione patita da islamici, forse per distogliere l’attenzione da altre tragedie in cui i musulmani sunniti sono invece dalla parte dei carnefici. Supposizioni, seppur credibili, che comunque fanno riflettere.

Assk ha riconosciuto l’uso a volte eccessivo della forza da parte del Tamadaw, ma ha negato ogni piano di sterminio della popolazione rohingya. Ha anche chiesto alla Corte di lasciare alla giustizia militare del Myanmar di punire i colpevoli: «Non verrà lasciata nessuna pietra senza essere sollevata», ha affermato Aung San Suu Kyi. Ha altresì affermato che tra poche settimane inizieranno i processi in patria e che giustizia verrà fatta. Ma una condanna internazionale per genocidio priva di prove inconfutabili, come nel caso della Bosnia, riporterebbe il Myanmar indietro di decenni e chi ne farebbe le spese sarebbe la povera gente. Assk si sta giocando non solo il suo futuro, ma quello del suo Paese. E quello che chiede è il diritto all’autodeterminazione. La questione è sottile.