Scritto da Pasquale Ferrara
Fonte: Istituto Universitario Sophia

 

Una premessa

Lo scopo di questo intervento non è certo quello di analizzare tutti gli aspetti politici, interni in internazionali, della crisi della pandemia. Bisognerebbe avere tutti l’umiltà di ammettere che la crisi della pandemia ci costringe ad apprendere cammin facendo, e che non ci sono ricette semplici o scorciatoie. Perciò non farò un’analisi degli eventi in senso stretto, ma suggerirò alcune piste di riflessione se volete più fondative, senza perdere di vista ovviamente la drammatica condizione presente, e anche cercare di guardare, se possibile, oltre l’emergenza del Covid-19.

 

Pandemia e biopolitica

Entrando nel merito del nostro discorso, possiamo constatare che la pandemia produce un effetto diretto ed incisivo sulla politica, che in qualche modo viene esposta nella sua struttura di base.  La politica (con le dovute eccezioni di strumentalizzazione e tornaconto partitico), non tratta più questioni periferiche, procedurali o tattiche ma questioni centrali e strategiche.

In questa crisi appare evidente che la politica, in definitiva, è sempre bio-politica, perché può fare la differenza tra la vita e la morte, tra la salute e la malattia. Come sapete la biopolitica è un tema che è stato introdotto nella filosofia politica contemporanea da Foucault, Agamben, Esposito. La biopolitica si può riferire in senso ampio a bios, cioè alla vita nelle sue ampie estensioni, oppure, in modo molto più circoscritto, a zoé, ovvero alla vita nella sua accezione puramente biologica di sopravvivenza. A questo riguardo, personalmente mi ha molto colpito che uno dei provvedimenti adottati dal governo italiano per affrontare la crisi si chiami “cura-Italia”. Questo è molto interessante, perché il rapporto tra il potere e la cura è una struttura politica fondamentale, benché ambivalente. C’è da una parte la pericolosa versione “salvifica” della politica come suggerisce Hobbes: il Leviatano assicura anzitutto la nostra incolumità fisica. Dall’altra, c’è la questione di un insieme complesso di fenomeni interrelati quando si parla di salute, come medicina, politiche sanitarie, cura, malattia “che hanno a che fare con il benessere (o la sofferenza) bio-psico-fisica dell’essere umano” e che in quanto tali “non possono essere intesi né a livello concettuale né a livello pratico come separati dall’insieme più ampio delle dinamiche sociopolitiche e dei rapporti di forza e di potere in cui sono immersi.”[2]

Nella pandemia, a brevissimo termine, è l’idea della sopravvivenza umana a prevalere. In questo senso si può interpretare la richiesta del distanziamento sociale per evitare il diffondersi del contagio.  Esattamente dieci anni fa scrissi un libro intitolato Lo stato preventivo. “Quali che siano le caratterizzazioni che la dimensione politica assumerà nei prossimi decenni – scrivevo nel 2010 –  è probabile che i suoi caratteri salienti, di matrice nettamente securitaria, rimangano quelli dell’immunizzazione e dell’incolumità.”[3]

Ma verrà un tempo in cui la politica si dovrà preoccupare di ritrovare la dimensione del bios, di una vita, per così dire, qualificata, che è essenzialmente fatta di relazione.

 

Pandemia e parresia

Dopo una scorpacciata di forzature lessicali, come la famosa “disintermediazione” e la critica della rappresentanza, i fraintendimenti sull’idea di democrazia diretta, assistiamo oggi, nella situazione di crisi, ad una forte richiesta di azione politica chiara e determinata fatta alle istituzioni rappresentative, a tutti i livelli di governo. Ci sono, ovviamente, criticità specifiche ad ogni contesto, come ad esempio la questione delle autonomie regionali e dei poteri federali.

Più in generale, si pone il problema di come le democrazie possano affrontare shock asimmetrici e imprevedibili (come una pandemia) senza snaturarsi e senza diventare, come si dice in politologia, delle democrature, cioè sistemi politici meno rispettosi dei diritti dei cittadini e delle regole. Si parla ad esempio di quella che potremmo definire “deriva esecutiva”, con governi che operano per decreto anche nell’impossibilità di convocare fisicamente i Parlamenti per ragioni precauzionali. Bisogna fare attenzione a non confondere lo stato di emergenza, che serve a governare in modo più decisionista in periodi di crisi acuta, ma senza stravolgere il sistema costituzionale, con lo stato di eccezione (di cui parlava Carl Schmitt), che invece sospende l’ordine costituzionale. C’è dunque una differenza di fondo tra una democrazia securitaria e la sicurezza democratica.

Qui il punto fondamentale, a mio avviso, non riguarda la quantità di potere nelle mani dei governi, ma la sua qualità. In altre parole, non è necessariamente vero che solo i sistemi autoritari sono davvero in grado di gestire le crisi, perché anche le democrazie possono farlo se però esercitano un potere che sia pronto non solo a rispondere delle sue decisioni (accountability), ma anche a spiegarle (argomentazione). Qui mi viene in mente la famosa distinzione introdotta nella teoria della democrazia discorsiva da Jurgen Habermas tra agire teleologico o strategico e agire comunicativo.[4] Mentre nel primo caso l’interazione (mettiamo tra governo e cittadini) è razionale e strumentale (non necessariamente nel senso negativo di strumentalizzazione), perché orientata al successo (diciamo pure al consenso), nel secondo caso, quello dell’agire comunicativo, l’azione è orientata all’intesa, che si fonda su convincimenti comuni. E’ una concezione della democrazia come pazienza, se vogliamo, fondata su argomentazioni e persuasione. Un’interazione orientata all’intesa è anche quella che implica l’ascolto, specie di chi sa farsi convincere e cambiare idea, se necessario. Un aspetto importante di questo esercizio in senso lato deliberativo è quella che i greci chiamavano parresia. Qui la intendiamo non solo come il coraggio dei governati di dire la verità dinanzi ai potenti, ma anche il coraggio dei governanti di dire la verità ai cittadini (e non si tratta, banalmente, di “trasparenza”). Michel Foucault ha scritto un bel libro su questo tema della parresia, e afferma che la parresia “è legata al coraggio difronte al pericolo: essa richiede propriamente il coraggio di dire la verità a dispetto di un qualche pericolo. E nella sua forma estrema, dire la verità diventa un gioco di vita e di morte”[5] (p.7). Ancora una questione bio-politica.

Qui entra il gioco la questione del rapporto tra politica e scienza, in particolare la scienza medica. In questi ultimi anni abbiamo assistito soprattutto in occidente, ma non solo, ad una campagna forsennata e dissennata di svalutazione della conoscenza. Studiosi, ricercatori, scienziati, gli intellettuali in genere, sono stati vittime di un “relativismo epistemico” nel senso che le loro tesi sono state spesso ridotte a mere opinioni tra le altre. Questo è il lato oscuro dell’accesso istantaneo, universale e senza intermediazioni alla rete globale. La sostanziale anarchia della rete Internet è per molti versi un fatto liberatorio, ma ha finito per opporsi non solo all’autoritarismo (e siamo d’accordo) ma anche troppo spesso all’autorità come competenza prima ancora che come ruolo sociale.

 

Previsione e lungimiranza

In una situazione critica e drammatica, occorre mantenere una fondamentale onestà intellettuale e una correttezza metodologica ed analitica. Dobbiamo evitare di avvalorare narrazioni politiche ex-post della nuova pandemia del COVID-19.

Da una parte, i sovranisti ci vedono la prova che la globalizzazione è perniciosa e che bisogna tornare al controllo delle frontiere e ridurre l’esposizione internazionale. In realtà si potrebbe contro-argomentare che proprio questo tipo di minacce transnazionali alla sicurezza nazionale dimostrano che la sovranità nazionale non è sufficiente e forse inadeguata ad affrontare le sfide globali, e che solo la condivisione politica (che è cosa ben diversa dalla cooperazione internazionale) può permetterci di superare queste enormi criticità. La pandemia dimostra che gli eventi si presentano sempre più in termini di flussi, ma la politica si organizza ancora in termini di “stock”, di quantità finite di territori e di risorse. Pensiamo al discorso delle mascherine che non sono abbastanza in un Paese e che invece abbondano in un altro.

Sul versante opposto, i fautori di un approccio olistico e planetario alla politica ed all’economia (come in particolare i teorici dell’Antropocene, cioè del mutamento degli equilibri del pianeta dovuti all’impronta profonda dell’attività umana – human imprinting – attraverso la produzione e in definitiva attraverso il modello capitalistico) tendono ad interpretare la pandemia come prova che l’alterazione della natura produce conseguenze nefaste dovute agli squilibri che si producono, ad esempio, nella catena alimentare o nella riduzione dell’habitat per le specie animali selvatiche che sono costrette ad invadere, per sopravvivere, gli spazi antropizzati. Si potrebbe contro-argomentare che le grandi epidemie come la peste nera ci sono sempre state e precedono di gran lunga l’era industriale e quindi si tratta di una correlazione e non di una causazione.

Un po’ per scherzo e un po’ seriamente io definisco i sovranisti come i “doganieri” del mondo (con tutto il rispetto per la nobile professione dei doganieri): sono coloro che credono che le barriere, le frontiere, i muri siano la soluzione per isolarci dalle minacce o anche semplicemente per tenerci lontani dai problemi degli altri.

Per contro, quanti giustamente difendono la devastazione ambientale, si possono definire come gli “ortolani” o i “giardinieri” del mondo, sia detto senza ironia.

Tutti e due i gruppi tendono a tirare il virus per la giacchetta.

Il problema è che le interpretazioni postume rischiano di essere ideologiche. Invece di essere dei “prometei”, cioè coloro che “pensano prima” secondo l’etimologia greca, cioè uomini e donne in grado di vedere lontano, di immaginare le gravi conseguenze delle nostre azioni nella società e nella natura, rischiamo piuttosto di apparire come degli “epimetei”, cioè come coloro che si accorgono dei danni e degli eventi solo dopo che si sono prodotti e manifestati. Credo che occorra evitare di piegare i fatti, come il grande “evento” mondiale della pandemia, per arruolarlo a difesa o a giustificazione di una tesi o di una interpretazione.

In realtà, stiamo tutti apprendendo severe lezioni. E’ mancata non solo e non tanto la capacità previsionale (immaginare gli effetti devastanti di una pandemia non solo per la popolazione ma anche per l’economia, la società, la cultura), ma l’intelligenza di comprendere come le politiche sociali, ben congegnate, siano in realtà un investimento e non una spesa, un’opportunità e non uno sperpero, e riguardano non solo il welfare, ma direttamente la sicurezza nazionale.

Un centro studi dell’Unione Europea (“European Strategy and Policy Analysis System”) nel suo ultimo rapporto 2030 (“Challenges and Choices for Europe”[6]) distingue tra due parole, in inglese: prediction e foresight, cioè tra previsione e lungimiranza.

La migliore risposta alle crisi deve essere data prima che esse sorgano, nella normalità delle scelte di politica economia e nei bilanci pubblici. Io dico spesso che secondo me i bilanci statali, le leggi finanziarie e simili non sono affatto documenti contabili, ma sono documenti etici, che mostrano la direzione di marcia di una società e le sue scelte fondamentali.

Dall’universalità di mercato all’universalità di senso

Sul piano della politica globale, sembra che la pandemia non faccia venir meno il gioco della strategia. Ad esempio, ha avuto buon gioco Donald Trump nel definire il nuovo coronavirus “il virus cinese“.  Ora, e evidente che il virus non ha nazionalità e che si tratta di una retorica tesa a colpevolizzare la sola Cina.

Per contro, da parte cinese, dopo una gestione della crisi compiuta con provvedimenti draconiani, si punta a trasformare l’iniziale colpo di immagine per Pechino in una nuova opportunità politica, in una occasione di esercizio del “soft power”, quasi a voler dimostrare che il modello cinese è in grado di rispondere a questo tipo di sfide atipiche e catastrofiche meglio dei più avanzati paesi del mondo euro-atlantico.

Mi pare tuttavia che nessuno dei due paesi si renda pienamente conto che l’assetto delle relazioni internazionali al termine della pandemia sarà probabilmente assai diverso da quello che ha finora dominato la scena.

Alcuni analisti disinvolti, operando una crasi tra geopolitica e pandemia,  hanno introdotto il concetto di “competizione pandemica” per rappresentare l’idea dello sfruttamento politico del morbo, asserendo che tale “partita” sarà “vinta” da chi chiude più tardi e riapre prima, fermando  il meno possibile la macchina produttiva, non da chi subisce meno morti. In primo luogo, a me sembra anzitutto che l’aggettivo « geo-pandemico » sia in sé un ossimoro. La pandemia per definizione OMS è globale, è priva di senso anche pratico una competizione tra territori e popoli più o meno infetti. Inoltre, abbiamo visto come è finita la « competizione » in UK e Svezia, due Paesi che hanno dovuto fare un precipitoso dietro-front rispetto a politiche di contenimento del contagio in apparenza più liberali. Non vorrei che dalla geopolitica applicata alla pandemia si passasse senza colpo ferire alla necropolitica. La politica o ha al centro la sicurezza umana oppure non serve, o meglio serve solo alle oligarchie che giocano a risiko con la vita della gente indifesa.

Inoltre la comprensibile preoccupazione dei governi di disporre a sufficienza di dispositivi protettivi ed apparecchiature medicali avanzate, e soprattutto, in prospettiva, di dosi di vaccino adeguati rischia di aprire una nuova linea di faglia in un mondo che è già attraversato da fratture così profonde da indurre a ritenere che si sia entrati in una fase di de-globalizzazione, in un mondo post-globale. Una mentalità da gioco “a somma zero” si sta affermando sotto l’impulso di leader nazionalisti, che approfittano della crisi pandemica per enfatizzare gli interessi nazionali a scapito della cooperazione internazionale, paradossalmente ancora più necessaria per rispondere a questo “shock simmetrico” che colpisce tutti i paesi sia pure in forme e tempi diversi. [7] Alla pandemia dovrebbe corrispondere un panumanesimo come risposta davvero efficace piuttosto che l’illusione pseudo-autarchica.

Le lezioni da trarre sarebbero molteplici e strategiche.

In primo luogo, si dimostra che nessun paese per quanto militarmente ed economicamente super-potente riesce veramente ad evitare questo tipo di situazioni drammatiche che colpiscono direttamente la popolazione, come “armi letali” totalmente fuori del controllo di ogni regime politico. Emblematico è il caso della portaerei statunitense Theodore Roosevelt, una delle più impressionanti macchine da guerra americane, il cui equipaggio, dopo una sosta dell’unità navale in Vietnam, a cominciato ad ammalarsi di coronavirus nell’ultima settimana di marzo 2020, per circa 100 casi registrati. E’ stato decretato l’isolamento per i contagiati, ma sulla portaerei, lunga 333 metri, quasi 5000 persone sono costrette a vivere in stretto contatto per l’esiguità degli spazi. Il comandante della portaerei, Brett Crozier, ha richiesto lo sbarco di gran parte dell’equipaggio, osservando, in particolare, che non ci si trovava in una situazione di guerra, e che la priorità avrebbe dovuto essere quella di salvare le vite dei giovani marinai. Crozier è stato rimosso dall’incarico, perché in questa circostanza avrebbe dimostrato, secondo i suoi superiori, scarsa professionalità. Alla fine è stato consentito lo sbarco di soli 2700 marinai, mentre il resto dell’equipaggio è restato a bordo per garantire  l’operatività della portaerei, in base al principio astratto che non si abbandona una nave da guerra, anche in tempo di pace, specie se questa è impegnata in una dimostrazione di forza nei confronti della Cina con i suoi 90 velivoli da combattimento. [8] Una portaerei può combattere e vincere una battaglia navale e aerea, ma non può nulla contro un micro-organismo come il Covid-19, capace di mettere in difficoltà la potentissima Marina americana.

Sarebbe poi l’occasione per rendersi conto che un approccio alla politica estera fondato prevalentemente sulla potenza e talvolta sulla prepotenza non solo non è in grado di rispondere ai vari “cigni neri“ che fanno di tanto in tanto la loro irruzione sulla scena mondiale, ma addirittura complica la possibilità di fronteggiare tali criticità, non fosse altro per la semplice ragione che quegli investimenti o sperperi fatti nell’illusione securitaria finiscono per sottrarre risorse preziose alle politiche di prevenzione. Il 23 marzo 2020 il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, ha dovuto lanciare un disperato appello per un immediato per il cessate il fuoco globale in tutti gli angoli del mondo, chiedendo di fermare i conflitti armati e concentrarsi, tutti, sulla vera battaglia delle nostre vite”. C’è poi un tema importante, che riguarda i Paesi più vulnerabili:  “Non dimentichiamo – dice Guterres – che nei Paesi in guerra i sistemi sanitari hanno collassato e il personale sanitario, già ridotto, è stato spesso preso di mira. Rifugiati e sfollati a causa di conflitti sono doppiamente vulnerabili. La furia del virus illustra la follia della guerra.”

Sul piano più generale, la pandemia conferma le tesi di Ulrich Beck[9], che parlava della esplosività politica dei rischi globali, che mettono a nudo l’inadeguatezza delle istituzioni internazionali. Una prima esplosione o implosione potrebbe purtroppo riguardare l’Unione Europea, ma potrebbe anche costituire occasione di riscatto. La crisi ha fatto cadere alcuni tabù, come il famoso Patto di Stabilità. La Banca Centrale Europea ha dopo troppe esitazioni ha deciso di immettere 750 miliardi di Euro nel sistema acquistando titoli del debito pubblico degli stati. Ma deve cambiare l’impostazione di fondo: l’Unione come semplice insieme di stati-nazione è forse superata dalla storia e dagli eventi.

Ormai da almeno due decenni si parla costantemente di governance globale, con risultati estremamente deludenti, se si pensa ad esempio al caos climatico o al controllo dello strapotere della finanza. La governance è una chimera, se non è capace di mettere in moto meccanismi seri di risposta coordinata a livello mondiale al rischio generalizzato creato dalle pandemie. E’ il mancato governo politico della globalizzazione, più che quest’ultima in quanto fatto oggettivo (e non ideologia), che crea l’incapacità di risposte mondiali alle crisi transnazionali. Comprendiamo che i meccanismi tecnici del multilateralismo non sono adatti alle catastrofi. Le relazioni internazionali devono subire una mutazione genetica, non bastano le mitigazioni e gli adattamenti come si dice per le politiche climatiche. Prendendo atto che quando si parla di famiglia umana universale non si tratta di un gergo per anime belle, ma di una sfida esistenziale per l’umanità. Il cambio di paradigma è quello che mette in soffitta l’idea di egemonia, con tutti i suoi orpelli legati al predominio economico e militare, e rende centrale l’idea della politica come “cura”, come “prendersi cura” del mondo, più che dominarlo. La pandemia rende evidente l’estrema vulnerabilità e fragilità di tutti i sistemi, indipendentemente dalla quota di potere che essi detengono sulla scena mondiale. Essa sortisce l’effetto di unificare diversi concetti di sicurezza. La sicurezza può essere declinata infatti in almeno tre significati, resi in inglese da security (le sicurezze della vita, nel senso ad esempio di sicurezza sociale), certainty (certezza) e safety (sicurezza personale, incolumità).

Prendo a prestito le parole di Elena Pulcini in un libro di qualche anno fa:  “Se (…)il concetto di responsabilità rimanda soprattutto alla pre-occupazione per l’altro, il concetto di cura (…) coniuga in sé, nelle sue stesse radici etimologiche, il significato di preoccupazione e di sollecitudine; consentendoci di aprire un altro versante della nozione di responsabilità che pone l’accento, appunto, sull’impegno attivo, concreto ed esperienziale del prendersi cura. Il che vuol dire sottrarre l’etica della responsabilità al rischio di restare confinata in un ideale astratto e puramente di principio.”[10] E la cura del mondo implica anzitutto, specie in una situazione di pandemia, conservazione della vita e garanzia della sopravvivenza: ma soprattutto impone di trasformare quella che è solo una “universalità di mercato” in una “universalità di senso.” [11]

 

Pasquale Ferrara

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[1] Intervento al webinar sull’emergenza del Covid-19 organizzato dal “Polo Lionello Bonfanti” e dall’Associazione Salve, 24.03.2020

[2] AA.VV., La cura e il potere. Salute globale, saperi antropologici, azioni di cooperazione sanitaria transnazionale, Ed.it, Firenze-Catania 2010)

[3] Pasquale Ferrara, Lo stato preventivo. Democrazia securitaria e sicurezza democratica, Rubbettino, Soveria Mannella 2010, p.220

[4] Cfr. Jurgen Habermas, Teoria dell’agire comunicativo, Il Mulino, Bologna 1997

[5] Michel Foucault, Discorso e verità nella Grecia antica, Donzelli, Roma 1996, p.7.

[6] Cfr. European Strategy and Policy Analysis System (ESPAS), Global Trends to 2030. Challenges and choices for Europe, Bruxelles 2019 https://ec.europa.eu/assets/epsc/pages/espas/ESPAS_Report2019.pdf (ultimo accesso 23.3.2020)

[7] Cfr. Peter S. Goodman, Katie Thomas, Sui-Lee Wee and Jeffrey Gettleman, A New Front for Nationalism: The Global Battle Against a Virus, “The New York Times”, 10.4.2020

[8] Cf. Gianluca Di Feo, Coronavirus, Usa: rimosso il comandante della portaerei che voleva salvare i suoi uomini, “La Repubblica”, 3.4.2020

[9] Ulrich Beck, La società del rischio. Verso una seconda modernità, Carocci, Roma 2000

[10] Elena Pulcini, La cura del mondo. Paura e responsabilità nell’età globale, Bollati Boringhieri, Torino 2009, p.22

[11] Ibidem, p.23