04/12/2017
Nessun itinerario aveva posto il pontefice in modo altrettanto drammatico e ultimativo davanti al bivio tra gli obiettivi strategici della sua politica estera: Cina e islam.
 
Francesco in Myanmar
Birmania oggi Myanmar. E Bangladesh un tempo Pakistan dell’Est. Nazioni low cost e iniziali da B&B. A basso reddito e profilo basso. Scali periferici e campi ostici, che a un tratto alzano il prezzo e non garantiscono più il punteggio pieno, sulla scena dei viaggi apostolici.
Trasferte facili sulla carta che divengono incerte nella cronaca, insidiose dal primo minuto e sino all’ultimo appese a un filo, riaprendo e rimettendo in discussione il campionato, sulla striscia di terra contesa e scivolosa del Rakhine, alias Arakan, autentica buccia di banana geopolitica lungo il confine tra due Stati e tra due mondi.
Così la minoranza profuga e senza cittadinanza dei rohingya, musulmani birmani del Nord-Ovest, etnia più perseguitata del pianeta secondo l’Onu, è assurta nell’immaginario collettivo a diaframma e dilemma dei due Orienti. Spartiacque tra due Asie. Tra Siddartha e il Profeta. Tra l’Himalaya e il Bengala: nel gomito di atlante, fertile e fragile, in cui natura e cultura si gonfiano a emulazione dei fiumi e soffiano con la forza dei monsoni. Portatori di vita o di morte. Di civiltà o di calamità.
Nessun itinerario aveva posto Francesco in modo altrettanto drammatico e ultimativo davanti al bivio, divaricato, tra gli obiettivi strategici della sua politica estera: la Cina e l’islam. Obbligandolo a scegliere e sciogliere il groviglio.
Anche Pechino infatti ha il suo “Nord-Ovest”, nella “nuova frontiera”, etimologica, del Xinjiang, dove risiede la gente degli uiguri, di fede islamica e lingua turcofona, dieci volte più consistente dei rohingya.
Ragioni e regioni che hanno trasformato la visita di Bergoglio in prova d’esame: cruna d’ago geografica e ago di bilancia diplomatico, che dalla cenerentola del Myanmar punta diritto al celeste impero ma induce, di converso, a soppesare la parola e il gesto.
A tale riguardo il ritratto di Francesco, inchinato di fronte ai rohingya nel giardino dell’arcivescovado di Dhaka, offre l’icona inedita e struggente di un papa che dichiara e sente su di sé, in presa diretta, il giogo delle prudenze e reticenze, dei rimorsi e compromessi, connessi al cammino storico della chiesa. E ne chiede perdono alle vittime: misurando lo iato che intercorre, a ogni epoca e in ciascun luogo, tra il Regno di Dio e la Realpolitik dei suoi emissari, anche i più temerari.
“Volevano cacciarli dal palco. Non l’ho permesso. Ho pianto per loro cercando di non farlo vedere e, dopo averli ascoltati, ho sentito crescere cose dentro di me e ho pronunciato il loro nome”. Upgrade teologico – “la presenza di Dio oggi si chiama rohingya” – che supplisce al silenzio politico dei discorsi ufficiali e conferisce uno status mediatico, in assenza di quello giuridico, sul display del villaggio globale.
Birmania e Bangladesh, dunque. L’1% di cattolici, nel primo dei due casi e lo 0,25%, addirittura, nel secondo: statisticamente insignificanti se paragonati ai 500 mila monaci buddisti, tra le pagode e sponde dorate dell’Irawaddy. O ai 150 milioni di seguaci dell’islam, addensati anzi ammassati tra minareti e acquitrini, nella zona del delta del Gange. Numeri localmente irrilevanti ma romanamente determinanti sulle rive del Tevere, all’orizzonte non remoto di un conclave.
Più di Torino e di Venezia, della Sindone e del Leone di San Marco, città per blasone cardinalizie tuttavia escluse, al momento, dalle qualificazioni al “mondiale”. A differenza di Yangon e Dacca, che saranno al contrario lì, nella Sistina e con diritto di voto, a incoronare il successore di Pietro. E ancora, più di Slovacchia e Slovenia, spostandoci nel cuore dell’Europa: monocolori cattolicissimi ma privi di porpora. E sullo stesso piano di Austria e Irlanda, che di berrette rosse ne possiedono invece una soltanto, esattamente al pari dei due paesi asiatici.
Periferia che si fa centro, nel senso più concreto e completo del termine, invertendo gli stereotipi, grazie alla redistribuzione di posti e poteri, senza precedenti, operata in questi anni da Bergoglio.
Duemila chilometri di limes in comune: Francesco non era giunto mai così a ridosso della Cina, se non fosse per il miliardo e passa di fedeli, correligionari dei rohingya, che stavano intenti a osservarlo, in un raggio vastissimo di meridiani e anime, dal Middle al Far East.
Affabili e ineffabili, femminili e gentili, le due Asie, buddista e islamica, si sono manifestate al vicario di Cristo nei volti aristocratici di due orfane di rango, scolpiti entrambi da un’infanzia luttuosa: il premio Nobel birmano Aung San Suu Kyi e il primo ministro del Bangladesh Sheikh Hasina, figlie dei padri fondatori, “giustiziati” dai compatrioti all’indomani dell’indipendenza.
Emblema di una leadership pasionaria e precaria, perennemente in bilico tra il passato e il futuro: “Non ho negoziato la verità. Ma ho fatto in modo che capisse perché una strada come quella dei brutti tempi passati oggi non è perseguibile”.
Mentre l’aereo di Francesco atterrava in Urbe, quello del generale Min Aung Hlaing, uomo forte della democrazia ibrida del Myanmar e responsabile della pulizia etnica del Rakhine, rientrava in patria da Pechino, dopo avervi presumibilmente riferito sull’intenso, inatteso vis à vis con il pontefice, fuori programma e fuori ordinanza.
Indizio e indice di una marcia che supera l’ostacolo e continua il suo percorso, dalle parole alle città proibite. Fra eredità rivoluzionaria e tradizioni autoritarie. Progressismi accademici e fanatismi endemici. Esodi biblici ed esiti amletici.
 
Articolo originariamente pubblicato su HuffPost.