Seconda parte dell’intervista allo storico Marco Luppi, Istituto universitario Sophia di Loppiano, a proposito del sindaco di Firenze, amato ma anche fortemente osteggiato in vita, dentro e fuori del partito. Dall’accusa di statalismo alla scelta per gli oppressi

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Continuiamo il percorso di una conoscenza più approfondita della figura di Giorgio La Pira, a 40 anni dalla scomparsa nel “sabato senza vespero” del novembre 1977,  quale esempio di quell’orizzonte politico che sembra mancare oggi davanti a sfide sempre attuali della pace e della giustizia.

Con il professor Marco Luppi, dell’Istituto universitario Sophia di Loppiano, abbiamo parlato della polemica tra i due illustri siciliani, La Pira e Sturzo, esponenti di due diversi periodi del cattolicesimo politico. Nel confronto con il sacerdote di Caltagirone, fondatore del partito popolare, e ancor di più con il presidente di Confindustria, Costa, resta l’idea di un La Pira statalista.

Per alcuni critici, la posizione di La Pira a favore della necessità della mano pubblica in economia, definito perciò a suo tempo “comunistello di sacrestia”, era la conseguenza di uno statalismo intimamente legato ad una formazione corporativa estranea alla democrazia liberale. Cosa ne pensi?

Ecco, se si entra, pur brevemente, dentro il tema specifico sull’intervento economico dello Stato nelle urgenze e nelle difficoltà del Paese, allora è doveroso ricordare che il famoso articolo di La Pira: “Le attese della povera gente”, apparso sulla rivista quindicinale “Cronache sociali” il 15 aprile 1950, scatenò un dibattito che vide partecipare industriali, sindacalisti, membri del governo. Nel pezzo in questione, La Pira rilanciava la ricetta keynesiana della volontà di spesa e della massimizzazione della forza lavoro come risposta a quelli che individuava come i due acerrimi nemici da combattere: disoccupazione e indigenza materiale. Le risposte in difesa del libero mercato, tra cui quella di Sturzo, in un periodo in cui lo statalismo alla base del sistema economico sovietico (e imposto, più in generale, a tutta l’Europa dell’Est) mostravano una proposta totalmente priva di libertà, con un’uguaglianza che appariva sprovvista dei presupposti fondamentali, perché controllata da uno Stato di regime a partito unico.

Quale è stato il modello seguito allora da La Pira?

Il keynesismo di un La Pira era tutt’altro che anti-democratico o corporativo, quanto piuttosto figlio delle convinzioni teoriche e dei grandi investimenti strutturali e infrastrutturali che avevano caratterizzato la stagione riformista “roosveltiana” negli Stati Uniti post ’29. Ciò che voglio dire è che il vero interesse di La Pira, quando vide l’articolo in cui Sturzo lo definiva “lo statista della povera gente” e lo accusava di voler limitare gli spazi della libera espressione imprenditoriale, era quello del sindaco, che aveva a che fare con migliaia di disoccupati, senzatetto, indigenti a vari livelli; era il primo cittadino della “vicenda Pignone”, fabbrica che minacciava di chiudere e delocalizzare e che, anche grazie all’intervento lapiriano, venne rilevata dall’Eni di Mattei, il quale la trasformò in uno dei fiori all’occhiello dell’industria meccanica italiana. Quando vedeva povertà e, secondo la sua sensibilità, mancanza di vero spirito politico di dialogo tra le maestranze che avevano in mano la sorte di migliaia di lavoratori (con dietro centinaia di famiglie), in La Pira scattava una “sacra frenesia”, che lo portava ad impegnarsi strenuamente fino alla soluzione, interessando tutti i livelli della politica, da quello istituzionale a quello locale.

Quali furono i motivi reali che lo estromisero dalla carica di sindaco di Firenze?

La Pira, eletto sindaco per la prima volta nel giugno 1952, ottenne altri due mandati, spesso con una valanga di voti, che andarono ben al di là della sua appartenenza alla Democrazia cristiana, anche perché i suoi competitor erano i candidati di quel Partito comunista che in Toscana aveva una delle sue roccaforti principali ed un bacino sicuro di preferenze. Per questo si può dire che gli furono riconosciute una passione politica e una dedizione per la città un po’ fuori dall’ordinario. Del resto la Firenze città del dialogo tra religioni e culture diverse, la Firenze dei Colloqui mediterranei alla ricerca di una soluzione della crisi arabo-israeliana, per il pieno riconoscimento del nuovo ingresso degli Stati reduci dalla colonizzazione nello scenario internazionale, furono tutte “invenzioni” lapiriane. Ebbe buon gioco Dossetti, nel giorno del suo funerale, nel dire che La Pira diede a Firenze una visione, uno spessore che prima era riscontrabile solo guardando al suo celebre passato storico e alla sua arte conosciuta in tutto il mondo. Ciò che fece concludere quella stagione, siamo nel febbraio 1965, fu il dato storico-politico legato al dibattito sempre più incandescente nella DC a proposito delle giunte di centro-sinistra, che anticipavano di qualche tempo il compromesso storico e si basavano sull’accordo con i socialisti e, a volte, sulla non belligeranza con i comunisti. Anche Firenze era parte di tali “esperimenti”, sgraditi alla parte più moderata del partito e malvisti da una fetta di mondo cattolico, che bersagliava costantemente La Pira su organi di stampa come “La Nazione”, in perenne polemica con il sindaco. Quando egli si accorse che la propria propensione al dialogo era osteggiata, che il suo metodo era messo in dubbio, e che qualcuno cominciava a costruire, a suo danno, un dualismo strumentale con uno tra i suoi collaboratori della prima amministrazione e amico, Piero Bargellini, si fece da parte.

Chi ha provato a seguire le tracce di La Pira?

Per La Pira il dialogo ed il lavoro con i giovani ha rappresentato un punto imprescindibile. Ciò era vero tanto nella professione universitaria, svolta con passione sino all’ultimo, quanto in politica. Nacque nel corso di quegli anni a Firenze, anche per il contatto con la vocazione ed il modo di intendere la politica di La Pira, una corrente democristiana incarnata quasi esclusivamente da giovani, “La Base”, il cui portavoce ed elemento di spicco fu Nicola Pistelli, che morì prematuramente, di incidente stradale, proprio nel settembre 1964. Successivamente, la figura di La Pira è rimasta un punto di riferimento per una parte del cattolicesimo, quella che è emersa nella stagione del Concilio Vaticano II, esprimendo attraverso alcuni valori, che rappresentano anche l’eredità lapiriana, la bontà di una scelta e di un metodo politico, fatti di propensione al dialogo, di ricerca di una sintesi tra riformismo e diritti sociali al di là di steccati troppo rigidi, della pace vista come rispetto e valorizzazione delle storie di popoli, comunità, che vanno accompagnate alla scoperta del proprio posto nella società internazionale. In questa dimensione La Pira ha incontrato personalità religiose e laiche, credenti o atei, stabilendo uno sguardo possibile e applicabile anche nell’impegno politico di oggi. A patto, tuttavia, che si seppelliscano le posizioni di rigidità partitica o le ideologie populiste, spesso basate sulla proliferazione di un pensiero totalitario, onnisciente che La Pira volle contrastare puntando sulle radici della convivenza umana.

Dalla tua visione complessiva che contempla anche il continente latino americano, attraversato da notevoli ricchezze e contraddizioni, come è cambiata la tua considerazione di La Pira fuori dalla sua italianità?

La mia esperienza universitaria ed esistenziale degli ultimi due anni in Brasile, e in un dialogo che cresce anche con una rete di colleghi in tutto il continente latino-americano che guarda alla valorizzazione di alcune categorie relazionali come la fraternità, mi suggerisce, a maggior ragione in questi tempi, che La Pira non può essere un “santino da sacrestia”, ma deve rappresentare una proposta attuale, perché la politica ha bisogno di menti aperte e di analisi che sappiano avvicinare le storie di popoli che si sono incontrate a volte in modo violento e conflittuale, ma oggi possono e devono “cavalcare le tigri” del futuro puntando su una visione condivisa, dialogata, includente. Di La Pira continua ad affascinarmi la sua visione della città come realizzazione di un sogno, di una vocazione, che va scoperta e per la quale spendersi. Il suo motto, quando fu per un decennio Presidente della “Federazione delle Città gemellate”: Unire le città per unire le nazioni, era un richiamo a costruire dentro la città, cellula base della convivenza, e seguendo l’indole umana condivisa in ogni parte del mondo, cioè quella di creare una comunità nella quale fosse possibile soddisfare tutte le esigenze. Amava spesso ripetere La Pira: «A tutti sia chiaro che in una città un posto ci deve essere per tutti: un posto per pregare (la chiesa), un posto per amare (la casa), un posto per lavorare (l’officina), un posto per pensare (la scuola), un posto per guarire (l’ospedale)».

Leggi la prima parte dell’intervista