di Pasquale Ferrara

 

 

«Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione».

Questa la famosa definizione che Carl Schmitt coniò per caratterizzare il potere sovrano nella sua massima assertività, ossia l’atto d’imperio di sospendere lo stato di diritto.

Oggi questa espressione potrebbe essere riformulata, con gli stessi effetti distorcenti, in modo radicalmente diverso: «Sovrano è chi decide sullo stato di esclusione». Si afferma infatti ai quattro angoli del globo una concezione della comunità politica, della polity, basata su caratteri identitari estremistici che tendono ad accentuare le differenze, le distanze culturali e religiose, in termini di incompatibilità e di divisione.

Il risvolto internazionale di questa tendenza è quello del ripensamento del ruolo degli Stati nell’ottica della sovranità, anzi del “sovranismo”, che ha tra i suoi effetti pratici quello di relativizzare e mettere tra parentesi i legami internazionali. Una sorta di suprematismo statalista che alimenta l’illusione di una riappropriazione territoriale dei parametri fondanti della comunità politica, come l’economia, la cultura, la storia.

Si è in effetti sviluppata, specie nella seconda decade degli anni 2000, una nuova stagione politica fondata sul concetto di “democrazia sovrana”. In origine, si trattava dell’idea (giusta) che la democrazia dovesse uscire dalle costrizioni del modello unico occidentale per poter essere declinata in modo originale nei diversi contesti culturali con caratteri originali. In seguito, l’espressione ha tuttavia assunto un tono di forte polemica con la democrazia liberale, assegnando allo Stato una fondamentale funzione d’ordine rispetto alla quale il fascio dei diritti civili, politici e sociali assume una collocazione derivata. La democrazia sovrana, a differenza dello Stato autoritario, mette in atto una “nazionalizzazione delle élite” piuttosto che la “nazionalizzazione delle masse” di cui parlava George Mosse.

La democrazia sovrana ha inoltre un’accentuazione nazionalista, non perché rifiuta il contesto internazionale, ma perché lo considera un elemento solamente funzionale, e non ontologico, della vita politica mondiale. Più precisamente, la democrazia sovrana mette in discussione l’idea, tipica dell’internazionalismo liberale e del costruttivismo, che l’identità degli Stati debba molto all’interazione con le altre comunità politiche, e che si forgi in modo endogeno nell’ambito di questo fascio di relazioni. Per la democrazia sovrana, contrariamente a chi ritiene che l’internazionalismo sia un fine in se stesso, la politica internazionale è un mero strumento di attuazione dell’interesse nazionale definito dai gruppi di potere. Come scrive Hobbes, «ogni Stato indipendente (non ogni uomo) è assolutamente libero di fare quel che giudica (cioè, quel che l’uomo o l’assemblea che lo rappresenta, giudicano) come il più vantaggioso»1.

Lo Stato, in questa accezione, torna ad essere un diaframma tra la società nazionale e la società internazionale, contrariamente all’universalismo (spesso strumentale, occorre ammettere) dei diritti umani, della responsabilità di proteggere e dell’interventismo umanitario. In altri termini, la democrazia sovrana attua un meccanismo di immunizzazione politica a livello internazionale, non solo nel senso del classico rifiuto di ogni ingerenza negli affari interni, ma anche di disinteresse per le questioni mondiali che non abbiano diretta attinenza agli interessi nazionali articolati secondo parametri economici, militari, egemonici, securitari.

Il sovranismo è dunque un isolazionismo selettivo, che rischia di far regredire la nozione di Stato alla nozione primigenia di Stato di Jean Bodin, che nel 1576 lo teorizzò come summa potestas, come potere supremo «superiorem non recognoscens», che non riconosce istanze superiori.

La fascinazione politica della democrazia sovrana ha contagiato anche l’Unione europea, che in teoria, secondo la lezione di Habermas, dovrebbe caratterizzarsi come un esempio di “costellazione post-nazionale”. La decisione della Gran Bretagna di lasciare l’Unione europea, come pure il rifiuto di alcuni Stati membri (come l’Ungheria e la Polonia) di accettare la ripartizione degli oneri di accoglienza dei rifugiati, rientra nella stessa attitudine di recupero della “sovranità” rispetto agli organismi sovranazionali, con un processo di riappropriazione delle quote di sovranità condivisa.

Sarebbe vano discutere della bontà di tali opzioni; si tratta di scelte da rispettare. Le questioni vere sono però sostanzialmente due: l’una, pragmatica, riguarda l’efficacia di questo arroccamento nazionale; l’altra, più politica, interroga il destino della rappresentanza.

Quanto al primo aspetto, già Ulrich Beck aveva parlato di una “realpolitik cosmopolita” che si imporrebbe agli Stati in ragione della natura transnazionale dei fenomeni globali. Difficile invocare la democrazia sovrana dinanzi al cambiamento climatico o alle migrazioni. Il rischio si globalizza senza chiedere il visto d’ingresso alle democrazie sovrane. Il pericolo del sovranismo, portato alle sue estreme conseguenze, è la deresponsabilizzazione e persino l’irresponsabilità.

C’è inoltre la questione delle capacità, e cioè delle reali possibilità di influenza della dimensione statale sui processi macro-politici di natura finanziaria, ad esempio, o di tipo securitario. Prendiamo il discorso sul cosiddetto “recupero della sovranità monetaria” nell’area dell’Unione monetaria europea: si può davvero ipotizzare che il ritorno alla lira o alla dracma consentirebbe di riappropriarsi del valore della moneta, che dipende ormai in buona misura dalle transazioni private transcontinentali svolte attraverso operazioni elettroniche attive 24 ore al giorno, 7 giorni alla settimana? Non solo la moneta non è più territoriale, ma lo stesso “territorio” dove essa viene trattata è virtuale, immateriale. La lezione di Carl Schmitt su Il nomos della terracome appropriazione originaria del suolo dovrebbe essere ripensata alla luce di questa assenza di territorio, almeno nella sua accezione tellurica e di radicamento.

Il secondo aspetto critico riguarda la rappresentanza. È indubbio che si tratti di un istituto politico in profonda crisi, ma questo non giustifica la sostituzione della rappresentanza con l’idea della “disintermediarizzazione”, o di una presunta identità tra governanti e governati, in una sorta di concezione neo-organicistica dello Stato, in cui il processo elettorale più che esprimere la volontà popolare servirebbe a legittimare il potere dinanzi al popolo.

Insomma, appare una forma politica che è stata definita in modo efficace come “democrazia illiberale”. C’è l’involucro della democrazia, ad esempio con le procedure elettorali, ma mancano delle componenti essenziali, cioè il pluralismo e il cesto fiorito delle libertà. La democrazia illiberale è spesso un magnifico dipinto di natura morta. Una variazione di questa distorsione della democrazia è l’autoritarismo competitivo: un ossimoro che sta a indicare, anche in questo caso, l’esistenza di procedure democratiche formalmente corrette accompagnate però da asimmetrie di fondo tra i contendenti, che si risolvono in un netto vantaggio dell’élite al potere. Il risultato della competizione elettorale è il mancato ricambio della classe politica e la riproduzione dei rapporti di potere a favore di chi già lo detiene (incumbent). I politologi distinguono tra istituzioni politiche “estrattive” e “inclusive”: nel primo caso l’accesso al potere politico soffre restrizioni di varia natura (anche quando la competizione è formalmente presente), mentre nel secondo caso il sistema politico è aperto e il potere realmente contendibile.

Sul piano globale, i sistemi democratici rappresentano la stragrande maggioranza, ma si può affermare che la sovranità popolare intesa come facoltà di scelta tra partiti e personale politico sia ugualmente diffusa? Se si vanno a esaminare le fattezze di queste forme politiche ibride, si constata che nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di regimi di esclusione. Il confronto politico è concepito come un gioco a somma zero (vincitori assoluti e perdenti assoluti), le minoranze e le dissidenze sono marginalizzate, le diversità stigmatizzate, le frontiere materiali e immateriali rafforzate. Si tratta, purtroppo, di caratteri che si vanno diffondendo anche nel caso di democrazie storiche, in Europa e in Nord America, grazie all’enfatizzazione degli aspetti securitari e protettivi riconducibili alla variante populista.

Il sovranismo è, in sintesi, la malattia senile della sovranità. Quest’ultima era nata come strumento di identificazione, mutuo riconoscimento e strutturazione relazionale sia nell’ambito politico interno che in quello internazionale.

L’ironia di questo processo di calcificazione esclusivista della democrazia è che mette in scena la finzione di uno Stato risolutore e decisionista, pur essendo palese che le questioni che riguardano i cittadini e le persone in generale sono di proporzioni titaniche e richiederebbero, perciò, la messa in comune degli strumenti d’intervento di cui la sovranità dispone per delega fiduciaria. «Persino per gli Stati più potenti – ha scritto Ken Booth – i sogni dell’“indipendenza politica” e della “libertà di azione” assomigliano allo Stregatto di Alice nel Paese delle Meraviglie: il sorriso rimane, ma la realtà è scomparsa».

Sulla scena del mondo riappaiono i Leviatani, ma sono Leviatani di cartone. Il loro orizzonte è quello asfittico della barriera protettiva, del “campo”, del muro o della rete. Mentre edificano fortificazioni, sembrano vittoriosi nel tempo breve, ma sono già sconfitti dalla grande storia. La loro responsabilità più grave non riguarda la chiusura degli spazi, ma l’illusione di dominare il tempo, la pretesa di sbarrare la strada al futuro, di condizionare le scelte delle generazioni successive.

Al contrario di quanto vorrebbero far credere i vessilliferi del neo-sovranismo, vero sovrano è chi decide sullo stato di inclusione. Sovrano è chi resiste alle sirene dell’integralismo pseudo-identitario e assume fino in fondo la responsabilità politica di evitare la facile quanto pericolosa scorciatoia sovranista e di imboccare il sentiero impervio della comunità mondiale, nelle sue mille articolazioni sanamente sovrane, senza perdere mai di vista gli obiettivi primari: lo sviluppo umano, il bene comune e i beni comuni. Insomma, uno Stato non più Alice nel Paese delle Meraviglie, ma che ammette, come Dorothy nel Mago di Oz, «che non siamo più nel Kansas».

 

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1 T. Hobbes, Leviatano, Editori Riuniti, Roma 1993, p. 149.

2 K. Booth, Relazioni Internazionali. Fondamenti e prospettive sociopolitiche del sistema internazionale contemporaneo, Mimesis, Milano-Udine 2014, p. 39