«Gli uomini e le nazioni hanno rinunciato a determinare la storia lasciando campo libero ai mercati»? Intervista a Carlo Amadei, esperto di storia economica per la redazione dell’autorevole Enciclopedia Treccani

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La questione della sovranità effettiva del nostro Paese nelle scelte politiche è al centro dell’orizzonte culturale dell’attuale governo italiano. Ma rischia di essere accomunato alle polemiche che nascono ogni giorno sul tema scottante dell’accoglienza dei migranti. Cerchiamo perciò di concentrare l’attenzione sul peso effettivo dei mercati finanziari sulla dialettica democratica. Ripercorriamo alcune tappe fondamentali della nostra storia recente con questa intervista a Carlo Amadei, esperto in storia economica e per anni caporedattore dell’enciclopedia Treccani.

ll filosofo Umberto Galimberti cita un grande pensatore come Gunther Anders, che si è confrontato con il nazismo,  per affermare che, nel mondo attuale, il soggetto protagonista è il mercato, mentre «gli uomini hanno rinunciato a considerare sé stessi (o le nazioni, o le classi, o l’umanità) come soggetti della storia». In che cosa consisterebbe tale primazia dei mercati?

Da alcuni decenni, stiamo vivendo nel quadro di una sorta di ideologia unica e totalizzante che non riguarda soltanto una certa visione della politica economica ma una vera e propria generale concezione del mondo. Basti pensare alla diffusione nei campi più disparati di concetti presi direttamente dal mondo del business: dalla società, alla politica, alla cultura fino all’individuo stesso che viene invitato a “mettersi sul mercato”, a “farsi imprenditore di sé stesso”, a “investire sulla propria persona” non solo per acquisire competenze ma anche relativamente al proprio aspetto fisico. Questo linguaggio è entrato a pieno titolo anche nel mondo della scuola e dell’università, pensiamo ad esempio ai termini “crediti” e “debiti”. Il rischio è quello di una progressiva riduzione della complessità e delle diverse sfaccettature che può avere una persona umana, alla sola dimensione economica e commerciale.

A proposito di debito, quali sarebbero i fattori che hanno contribuito in modo determinante al raddoppio del nostro debito pubblico?

Il fenomeno della crescita del debito è un tema complesso. Una delle cause è da attribuire all’aumento del deficit di bilancio che comincia negli anni ‘70 e prosegue negli anni ’80, determinato dal fatto che la spesa pubblica crescente non viene accompagnata da un adeguato incremento delle entrate fiscali, ciò grazie anche ad una diffusa evasione ed elusione fiscale. Bisogna però sottolineare che alla fine degli anni ’70, cioè al culmine della stagione delle riforme sociali, il nostro rapporto debito-Pil è ancora contenuto: non arriva al 60%. Tra il 1981 e il 1992, invece, si passa dal 60% al 120% soprattutto a causa della forte crescita degli interessi sui titoli del debito pubblico.

Come si spiega questo balzo anomalo in soli 10 anni?

Questa crescita avviene per diversi motivi. Da una parte abbiamo il “divorzio” tra Tesoro e Banca d’Italia deciso nel 1981, in sostanza la Banca d’Italia ha cessato di garantire, mediante il proprio acquisto dei titoli pubblici, la collocazione di questi ultimi al tasso d’interesse stabilito dallo Stato. È avvenuto, inoltre, l’ingresso dell’Italia nel Sistema monetario europeo (1979-92) che, contribuendo a peggiorare la bilancia commerciale, ha reso  necessario attrarre capitali dall’estero aumentando i tassi d’interesse, mentre si è prodotta una progressiva eliminazione degli ostacoli alla circolazione dei capitali.

Come pesano tali interessi sul debito pubblico?

Teniamo presente che mentre il rapporto tra deficit primario (entrate pubbliche meno spesa pubblica al netto degli interessi, ndr) e Pil resta stabile negli anni 80’ e dal 1990 diminuisce drasticamente fino ad azzerarsi nel 1991, il rapporto tra interessi e Pil cresce fortemente. Dal 1992 ad oggi il bilancio primario è attivo e questo surplus delle entrate rispetto alle spese serve esclusivamente a pagare gli interessi sul debito pubblico. Quando si parla di bilancio primario, ripeto, si fa riferimento esclusivamente alla differenza tra entrate e spese pubbliche al netto degli interessi sul debito: questo bilancio è attivo, malgrado le spese parassitarie e quelle per il foraggiamento dei diversi episodi di corruzione, nonché malgrado l’enorme evasione ed elusione fiscale.

Quale impatto hanno prodotto sull’economia italiana le politiche di austerità adottate allo scopo di ridurre il debito?

Le misure di austerità introdotte dopo l’esplosione della crisi nel 2008, anziché ridurre il rapporto debito/Pil, hanno contribuito ad aumentarlo (da quasi il 120% del 2011 ad oltre il 130% attuale). Il rapporto fra due grandezze come debito e Pil può essere rappresentato come una frazione dove il debito è il numeratore e il Pil è il denominatore. Le misure di austerità hanno compresso la domanda globale e quindi il Pil non è ancora risalito al livello del 2008. La diminuzione del Pil e il conseguente calo delle entrate fiscali hanno influito sul numeratore della frazione provocando un ulteriore aumento del debito pubblico

Che spazio rivestono le politiche occupazionali nell’assetto delineato dai Trattati europei?

La depressione del Pil agisce negativamente anche sull’occupazione. Purtroppo il sistema europeo configurato dai Trattati prevede la stabilità dei prezzi come obiettivo fondamentale mentre quello dell’occupazione è ritenuto secondario rispetto al primo. Le critiche sui trattati europei si incentrano sul contrasto tra tale impostazione e la nostra Costituzione repubblicana che considera, invece, il diritto al lavoro come uno dei diritti fondamentali da osservare.

Sul dibattito in corso in tema di debito pubblico, vedasi tra gli altri, il contributo di Benedetto Gui e l’intervista a Carlo Clericetti

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