di Fulvio Cortese,

professore di Diritto amministrativo dell’Università di Trento, è socio di Labsus

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Nelle città italiane il numero delle persone che intendono prendersi cura di spazi o utilità di interesse generale è in costante aumento. Talvolta si tratta semplicemente di farsi avanti per contribuire alla manutenzione del parco pubblico sotto casa o alla verniciatura delle pareti o degli infissi di una scuola; talaltra si sente l’esigenza di dare una mano nel recupero e nella gestione di un luogo o di un edificio pubblico rimasto abbandonato e percepito come idoneo a ospitare nuove occasioni di socializzazione. In ogni caso, l’individuazione di ciò che può fungere dabene comune spinge i cittadini a rendersi particolarmente propositivi e a cercare nelle amministrazioni locali un riconoscimento specifico e un supporto logistico e operativo. Perché questa alleanza si possa realizzare servono, tuttavia, delle regole: che permettano alle istituzioni di qualificare e promuovere le iniziative migliori e più sostenibili, nel rispetto dei principi di legalità, imparzialità e buon andamento; e che consentano alle comunità di essere realmente protagoniste consapevoli di questa diffusa attività di sperimentazione dal basso delle opportunità e dei vantaggi di un’amministrazione più partecipata e condivisa.

Per questa ragione, nel febbraio 2014, l’associazione Labsus-Laboratorio per la sussidiarietà e il Comune di Bologna hanno dato vita ad un regolamento tipo, ad un testo normativo che ogni Comune – nell’autonomia che gli è costituzionalmente riconosciuta – può adottare allo scopo di disciplinare sia le modalità di definizione, caso per caso, dei “beni comuni urbani”, sia gli strumenti pratici con cui i cittadini, anche singoli, e l’amministrazione locale possono dialogare per costruire insieme modelli di relazione e di gestione concretamente adeguati. In proposito, il regolamento ha previsto un istituto particolare, quello dei patti:accordi formalizzati che cittadini attivi e amministrazioni possono stipulare allo scopo di vincolarsi reciprocamente alla realizzazione di uno specifico progetto, stabilendo rispettivi impegni e responsabilità.

Ad oggi, dopo quattro anni, i Comuni, grandi e piccoli, che si sono dotati di regolamenti di questo tipo, sono più di 150, al Nord come al Sud; e altri 50 stanno approvando discipline del tutto analoghe. Dal Rapporto Labsus 2017 sull’amministrazione condivisa dei beni comuni si apprende che in buona parte (43%) i patti finora conclusi non hanno ad oggetto semplici operazioni di conservazione di “cose” di proprietà pubblica. L’ambizione esplicita è rigenerare quelle cose, ricollocandole in un disegno più ampio, nel quale potenziare o rendere ancor più efficaci i risultati conseguibili per effetto di altre politiche pubbliche (ad esempio, di tutela dei beni culturali o dell’ambiente; o di inclusione sociale di anziani, disabili o altre categorie svantaggiate).

Da ciò si comprende che l’interesse per i beni comuni è potenzialmente alto anche per gli organi e gli uffici dell’amministrazione, che possono avvalersi di risorse conoscitive e umane di cui altrimenti non potrebbero disporre, e che, operando in questo modo, possono rendere il proprio intervento più efficace e, al contempo, più legittimato e riconosciuto da parte della collettività politica di riferimento. In una tale prospettiva, occuparsi di beni comuni non significa soltanto creare le occasioni per l’applicazione effettiva del principio di sussidiarietà orizzontale (art. 118 della Costituzione); con i beni comuni si coltiva senso di appartenenza e si stimola una cittadinanza sempre più delusa dalle dinamiche del puro circuito rappresentativo a riscoprire l’indispensabilità e la continuità del proprio ruolo.

Fonte: www.unimondo.org