L’estenuante ricerca di una soluzione di governo è figlia, tra l’altro, delle accuse reciproche (e relativo disprezzo) tra le parti politiche

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Ce la farà Giuseppe Conte a ricevere un formale incarico di governo? La sua squadra sarà idonea a traghettare l’idea verso il cambiamento? Sono domande che gli italiani si fanno e che si ripercuotono nel contesto europeo e internazionale. È inattuale pretendere che dall’estero ci lascino in pace. Viviamo in quel condominio chiamato società globale e tutto ciò che da qualche parte si fa è visibile, e potenzialmente influente, su qualsiasi altra. Non ci sono cospirazioni cosmiche contro il governo 5 Stelle – Lega, c’è un mondo preoccupato per le scelte che un Paese importante come l’Italia adotterà in futuro.

Due mesi e mezzo fa dalle urne usciva la vittoria del Movimento 5 Stelle e l’affermazione della Lega nella compagine di centrodestra. Di solito, la regola dice che il premio per una vittoria alle elezioni politiche dovrebbe essere il governo. Essa ha le sue eccezioni, una delle quali è sotto i nostri occhi: se per vincere hai dovuto insultare gli avversari, accusarli di ogni malefatta, denunciarne la degradazione morale, allora ti puoi godere la vittoria solo se non hai bisogno di loro per formare una maggioranza politica. Siccome le cose non sono andate così, lo scorso 4 marzo, la vittoria di 5 Stelle e Lega è una vittoria di Pirro. L’estenuante ricerca di una soluzione di governo ne è la riprova.

L’insegnamento che se ne può trarre è vecchio quanto la politica stessa: nel fare propaganda, chi semina vento raccoglie tempesta. Se non sei sicuro di stravincere, ti conviene usare una maggiore moderazione, una temperata e razionale dialettica politica. E seppure qualcuno dovesse essere certo di conseguire una grande vittoria, sarebbe ugualmente da preferire una certa compostezza espressiva. A meno che non si desideri cavalcare il malcontento, in modo populista e demagogico. Al populista sfugge che il bene comune è davvero “comune”, e su questa certezza si deve fondare la ricerca di un dialogo costruttivo e l’apertura alla collaborazione. Ci sono riusciti Togliatti e De Gasperi, Nenni e Fanfani, Moro e Berlinguer… in tempi più difficili dei nostri.

Abbiamo sentito tutto e il contrario di tutto, in questa fase populista della nostra vita politica. Dopo aver denunciato il succedersi di governi non voluti dal popolo e il tradimento degli elettori, scopriamo che il governo che si vuole fare si comporrà, probabilmente, di persone che nessuno ha votato. C’è chi ritiene la coerenza politica un valore assoluto che muove dal non tradire il proprio elettorato, ma chiede alle altre forze politiche di smentire le ragioni su cui hanno basato il consenso ottenuto, cambiando orizzonte strategico rispetto agli impegni presi con gli elettori, per accogliere le proprie istanze.

Sono stati criticati i presunti interessi perversi dei leader del passato, manovrati dalla finanza internazionale, dalle banche, dall’Europa, e quindi incapaci di fare il bene del Paese, e oggi scopriamo che qualcuno dei principali protagonisti nell’arena politica – essendo politici di mestiere, nel senso che non ne hanno un altro – sono forse guidati dalla più classica delle motivazioni all’impegno politico: è l’unica fonte di reddito, dunque da tenersi stretta.

L’analisi delle contraddizioni in corso si estende al programma di governo: il “contratto per il governo del cambiamento” è una lunga sequenza di obiettivi ambiziosi (non tutti condivisibili), ma non c’è la parte relativa a come e con quali coperture economiche sarà possibile raggiungerli. In esso si delinea anche una mentalità pericolosa, perché incurante dell’architettura istituzionale dello Stato. Il riferimento è al Comitato di Conciliazione, che di fatto avoca a sé funzioni che dovrebbero svolgere il Parlamento in primis (con più trasparenza rispetto a tale Comitato) e il Consiglio di Gabinetto del governo. Per non parlare dell’inserimento del vincolo di mandato parlamentare, un assurdo che mina la libertà dei deputati e dei senatori e che farebbe precipitare il sistema italiano nella peggiore partitocrazia.

L’esito elettorale del 4 marzo è frutto della legittima e giustificata voglia di cambiamento che attraversa il Paese. Mentre ci si pone la domanda cosa cambiare, un’altra dovrebbe sollecitare la nostra riflessione: quanto si può cambiare? Alcuni studi sui flussi produttivi delle moderne democrazie osservano che, in condizioni normali, un governo stabile e durevole può sperare di cambiare il 10% dell’impianto normativo di uno Stato. Non dipende dalla voglia di lavorare del governo in carica, ma da quel sistema complesso che è l’ordine internazionale (nel caso dell’Italia si pensi anche ai vincoli europei) e dal sistema economico e finanziario transnazionale. A questi fattori bisogna aggiungere i rapporti fra la politica e l’amministrazione (in Italia abbiamo un sistema burocratico importante, a volte eccessivo), poi fra lo Stato e gli enti locali, ecc. Dunque, quando qualcuno promette di cambiare tutto o tanto, dovrebbe responsabilmente indicare come, dove, quando. Da questo punto di vista, credo che ci troviamo ancora in campagna elettorale.

Come uscire dall’impasse in cui ci troviamo? L’obiettivo deve essere fare un governo. Se l’ipotesi Conte non dovesse andare a buon fine, credo sarebbe meglio avere un governo autenticamente politico, guidato direttamente dai leader dei maggiori partiti che lo sostengono. Siccome sarà difficile governare potendo contare su 6 voti in più al Senato, sarebbe opportuno lavorare ancora per estendere la maggioranza, facendo venire meno qualche diktat e con aperture significative ad altri elementi programmatici. A quel punto, chissà che non si possa tornare a modificare il contratto, inserendo obiettivi corredati da adeguate coperture finanziarie ed economiche.

Tutto questo potrebbe accadere se gli attori in campo decidessero di mettersi in gioco davvero, di rischiare grosso puntando a una compagine politica nuova, dove ci si fida l’uno dell’altro (e non il viceversa) e ci si riconosce tutti nella stessa barca che, fra l’altro, rischia davvero di affondare se nei prossimi mesi non troveremo soluzioni politiche efficaci.

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