Esiste una amicizia naturale tra l’Italia e il Bene comune, questa espressione che sentiamo risuonare, che sta nel cuore della Dottrina sociale della Chiesa, che il cardinale Bassetti ha usato ieri nel suo appello alle forze politiche e sociali in questo momento gravemente critico per l’Italia, ma che tanti magari fanno fatica a intendere. Ma questa amicizia naturale tra l’Italia e il Bene comune c’è davvero. Siamo la patria di Tommaso d’Aquino, e siamo anche la terra della tradizione della “Pubblica felicità”, il nome che l’economia moderna prese in Italia nel Settecento. Mentre gli americani avevano messo al centro del loro umanesimo il diritto individuale alla “Ricerca della felicità” (Pursuit of happiness) e gli inglesi sceglievano “La ricchezza delle nazioni” (Wealth of Nations), noi italiani mettevamo al centro del programma della modernità la natura pubblica della felicità. In quella espressione ci sono tante cose preziose, oggi più attuali di ieri. Innanzitutto, essa ci dice che la dimensione più importante della nostra felicità è un qualcosa di pubblico, di condiviso, da cui dipendono anche i suoi aspetti individuali. Quando viene minacciata la pace o si incrina la concordia civile, anche le ordinarie private felicità di ciascuno di noi entrano in crisi e si abbuiano – lo stiamo vedendo in questi giorni.

Oggi gli studi empirici sulla felicità ci dicono che la maggior parte dei beni dai quali dipende la felicità individuale sono beni pubblici e beni comuni: il lavoro, la sicurezza, la vita famigliare, l’amicizia, l’inquinamento, il traffico, l’ambiente, la fiducia nelle istituzioni (e molto meno da: divani, tv, telefonini, case comode o automobili). Ciò che chiamiamo felicità dipende, dunque, in piccola parte da noi, e moltissimo dagli altri.

Per comprendere cosa sia il Bene comune, per una volta ci viene in aiuto l’economia, in particolare la “teoria dei beni comuni” (commons). I beni comuni sono quei beni che usiamo insieme (parchi, atmosfera, oceani, la terra …). Il Bene comune (con la B maiuscola) può anche essere visto e compreso come una particolare specie di bene comune (con la b minuscola). La scienza economica conosce la cosiddetta tragedia dei beni comuni, da cui emerge un messaggio chiaro e impegnativo: se ciascuno degli utilizzatori di un bene comune (un pascolo in montagna, un parco, l’ozono nell’atmosfera, un’impresa…) è animato soltanto dalla ricerca del proprio interesse privato, il bene comune viene distrutto, sebbene nessuno dei soggetti lo volesse. Per conservare e custodire un bene comune, invece, tra le persone deve scattare una logica diversa, che qualcuno chiama “logica del noi”, e così far diventare quel “bene di nessuno” un “bene di tutti”. Salviamo i beni comuni e il Bene comune quando riusciamo a vedere un valore più grande degli interessi privati, e una volta che abbiano visto riusciamo a decidere di fermarci, per esempio a fermarci prima che l’erba del pascolo finisca.

Ma – e sta qui il problema – durante le crisi è proprio la consapevolezza del “noi” che scompare, perché gli “io” diventano talmente ipertrofici da impedire di vedere il “noi”. Così l’erba del pascolo finisce, tutti stanno peggio, e non resta nulla per nessuno, né per oggi né per domani. E non si torna indietro (è molto difficile ricostituire un bene comune), perché si sono distrutte le relazioni di fiducia su cui si basava il buon uso di quel bene comune.

Il Bene comune, ancora più radicalmente dei beni comuni, è un bene fatto di rapporti, è una forma speciale di bene relazionale, perché sono le relazioni tra le persone a costituire il bene. Nel Bene comune non accade come nelle merci, dove anche se litighiamo con il fornaio possiamo sempre mangiare quel pane che ci ha venduto. Perché quando si spezzano le relazioni, non resta più niente da “mangiare”, e il Bene comune si trasforma in male comune. Come succede nell’amicizia e in famiglia: quando si litiga durante la cena, passa l’appetito e si chiude lo stomaco.

Peppone e Don Camillo sono un vero mito fondativo del nostro Paese, perché la concorrenza politica tra di loro era fondata su una concordia civile più profonda. Erano diversissimi, ma prima, e a un livello più vero, erano uguali, perché erano cittadini, perché erano umani. E così bisticciavano, si sfottevano, ma poi andavano insieme a difendere Brescello quando il grande fiume rischiava di esondare. Le comunità e gli Stati capaci di futuro sono quelli dove si è stati capaci di coltivare e custodire una amicizia civile che fonda e sostiene le competizioni economiche e politiche, quell’amicizia civile che l’illuminismo ha voluto chiamare fraternità. Quando l’amicizia civile si spezza, i popoli declinano, e si resta in balìa dei grandi fiumi della finanza e dei poteri forti.

Anche le istituzioni, nazionali e internazionali, anche l’Unione Europea, sono forme di beni comuni, sottoposti alla possibilità della tragedia, e quindi a essere distrutti, se ciascuno agisce solo per curare quelli che gli appaiono come i propri interessi. Le generazioni passate erano più capaci di vedere le ragioni del “noi” sottostanti a quelle degli “io”, anche per le esperienze ancora molto vive dei grandi dolori generati dall’assolutizzazione degli interessi di parte. Noi dobbiamo reimparare, e farlo presto, a vedere il Bene comune e le sue ragioni diverse.

pubblicato su www.avvenire.it di giovedì 31 maggio 2018