Luigino Bruni

Roma

Da un carisma una Economia di comunione
La principale, sebbene non unica, eredità che Chiara ha lasciato all’economia – sia come prassi sia come pensiero – è l’Economia di Comunione (EdC), nel senso ampio che mi appresto a  delineare. Un’eredità di non poco conto, se pensiamo che la crisi economica è una delle dimensioni più significative della crisi antropologica e relazionale del nostro tempo.  L’EdC, sebbene sia ancora poco più di un seme, è da molti considerata una esperienza significativa all’interno delle realizzazioni economico-sociali della seconda metà del XX secolo tanto da essere citata, solo per restare in ambito cattolico, e non a caso dato l’impianto della lettera, da Benedetto XVI nell’Enciclica “Caritas in Veritate” (n. 46), come modello da sviluppare.  L’EdC è anche una tappa moderna dell’antica storia di “economia carismatica”, cioè la storia di quelle esperienze economiche e civili che nascendo da carismi sono stati capaci di grandi innovazioni anche in ambito civile ed economico, proprio perché eccedenti rispetto ad esso – si pensi solo al ruolo economico fondamentale del Monachesimo nel primo millennio, del Francescanesimo e dei tanti carismi sociali nel Secondo Millennio fino all’epoca presente.  In particolare, cercherò di mostrare che l’EdC – le sue proposte concrete e l’umanesimo da cui nasce
    – risulta particolarmente rilevante in questa epoca caratterizzata non solo da crisi economiche e da grandi cambiamenti di paradigmi, ma anche dalla centralità dei Beni comuni (i cosiddetti commons), al punto da poter parlare di “era dei beni comuni”. Nell’era dei beni comuni, infatti, i nemici del Bene comune non solo soltanto i vizi (antichi e nuovi), ma le stesse virtù tradizionali debbono essere ripensate in chiave più immediatamente e esplicitamente relazionale, altrimenti potremmo cadere nelle cosiddette “tragedie dei commons” anche con persone individualmente virtuose (in senso classico), ma non in grado di relazionalità e di reciprocità non solo mercantile.  L’EdC, infatti, propone una logica economica caratterizzata da due elementi antropologici fondamentali:
    – un’idea di agente economico “persona”, visto cioè costitutivamente in relazione;
    – un’idea di mercato e di economia visti come reciprocità e “mutua assistenza” (nelle parole dell’economista napoletano Antonio Genovesi), che non solo non si oppone all’autentica socialità e alla gratuità, ma è parte integrante ed essenziale di esse, se vogliamo che siano luoghi pienamente e autenticamente umani. Anche per questo, ciò che accadde in quel provvido Maggio 1991 a San Paolo – che è la data del lancio da parte di Chiara del progetto economico che fu chiamato Economia di comunione, l’invito rivolto a imprenditori e imprese di farsi carico direttamente della lotta alla miseria, condividendo gli utili -, va inserito, per essere inteso correttamente e senza riduzionismi, all’interno della storia del Movimento dei Focolari già cinquantennale (in quel tempo), come punta di un iceberg molto più profondo. In quella proposta concreta si raccolsero molti degli elementi ideali, sociali, spirituali, che avevano caratterizzato l’esperienza e la spiritualità di Chiara e del Movimento fin dai primissimi primi tempi a Trento. Quella nuova socialità evangelica divenne 22 anni fa anche una nuova economia, ma perché lo era già, quantomeno implicitamente, sebbene senza, in quel tempo, una riflessione teorica specifica. L’EdC divenne così una concretizzazione su larga scala dei pilastri carismatici che avevano caratterizzato la vita del Movimento fin lì (ed ancora oggi). Tra questi:  

a) l’inclusione comunitaria dei poveri a Trento negli anni ’40, dove il Movimento dei Focolari non realizzò una mensa popolare ma le focolarine vivevano assieme ai poveri, invitandoli a casa a pranzo (“un povero, una focolarina”). Tutto ciò nel 1991 è diventato anche una inclusione produttiva, dove l’invito a pranzo del povero diventa la creazione di posti di lavoro con e per loro: la tavola dell’agape fraterno diventa anche il banco di lavoro, l’officina, la fabbrica. E le tovaglie più belle della festa per accoglierli (come si racconta), diventano oggi la festa della fraternità anche con i panni del lavoro.
b) La prima forma di cura della esclusione e della miseria è la con-costruzione di rapporti nuovi di fraternità vera: è il rapporto – prima dell’oggetto materiale del rapporto – che cura e dà la forza per uscire da tutte le trappole dell’indigenza e della marginalità. La fraternità richiede la condivisione e l’abbraccio. Come la fraternità francescana ebbe nel bacio di Francesco al lebbroso un suo momento simbolico e fondativo, così l’invito a casa del povero, ospitare in Focolare anche persone con malattie infettive, furono gli atti della fraternità di Chiara, una fraternità che nell’EdC prese, prende, e sempre più prenderà, anche una specifica forma economica, che consente di superare il paternalismo e assistenzialismo tipico di ogni forma di aiuto “ai” poveri che non nasca dalla vera fraternità “con” persone alle quali manca qualcosa, ma sono veramente uguali a tutti in dignità (è questa la base dell’uguaglianza e reciprocità sostanziale tra i vari protagonisti del processo di sviluppo).
c) Sul piano delle idee e del paradigma culturale: le categorie culturali e, in alcuni ancora rari casi, teoriche che stanno emergendo dall’esperienza dell’EdC1, sono tentativi di declinazione nel linguaggio delle scienze economiche di quelle categorie carismatiche che costituiscono la vita e la dottrina del carisma dell’unità di Chiara. E per la stessa ragione, quando si vuol comprendere veramente che cosa sia l’EdC di Chiara, occorre leggerla nella prospettiva larga nella quale è stata generata: una nuova visione dell’economia, che superasse da una parte il capitalismo individualista e dall’altra l’economia collettivista illiberale. Nell’EdC si vedono imprese e poveri, ma in essa c’è anche ben altro: occorre saper scorgere in e oltre essi un nuovo umanesimo, intravvedervi in nuce la proposta, già in atto, di un nuovo paradigma economico pratico e teorico, di una nuova visione del sistema economico nel suo insieme, anche se per ora riusciamo solo a delinearne soltanto pochi tratti. Quindi con l’EdC si scrive una nuova pagina di storia carismatica, dove sono presenti e vivi semi della tradizione cattolica (importante Francesco d’Assisi, ma anche Benedetto da Norcia e il suo “ora et labora”) e laica (la tradizione sociale e cooperativa del trentino, ad esempio). In quanto segue, dopo aver descritto brevemente il senso della ‘tragedia dei beni comuni’ che caratterizza molte delle realtà economiche del nostro tempo, nella seconda parte mostrerò perché nell’EdC si possono trovare elementi per superare queste tragedie e intravvedere un orizzonte di speranza oltre la crisi del nostro tempo. Sarà una sorta di esercizio, in cui cercherò di suggerire la rilevanza di alcune di queste categorie per l’economia nell’era dei beni comuni.   

1. L’era beni comuni
L’era dei beni comuni è un’espressione che vuole sottolineare un dato storico, e culturale: i beni più
strategici e cruciali oggi non sono più i classici beni privati (quelli che non possono essere
consumati o goduti assieme, senza che uno dei soggetti ne diminuisca il consumo: es. panino,
denaro, vestiti …), ma i beni comuni, quei beni cioè caratterizzati da due elementi:
a) si usano assieme (da due o più) (es. parco comune);
b) per la caratteristica di cui sopra, se lasciati gestire dai soli criteri di razionalità individuale (es. dal mercato capitalistico), tendono ad essere consumati troppo (rispetto al livello ottimale collettivamente, e individualmente), e spesso ad essere distrutti.
1 Tra questi: reciprocità, beni relazionali, governance di comunione, lavoro come dono, gratuità, povertà, fiducia relazionale, we-rationality, felicità …
2 La storia, ormai classica in economia, è quello del pascolo comune, riportato dal biologo D. Hardin (nell’articolo The tragedy of the commons, del 1968, sulla rivista Science). Il pascolo è proprietà comune dei pastori di una valle: nessuno di loro può essere escluso dal pascolo: che cosa accadrebbe allora se ciascuno seguisse la logica miope dell’interesse individuale egoistico? Il beneficio individuale di portare una mucca in più al pascolo è +1; il costo (la diminuzione dell’erba) invece è ripartito su tutti gli allevatori, quindi è -1/N, quindi minore del beneficio individuale. Ciò porta ciascun allevatore “homo oeconomicus” a portare troppi capi di bestiame al pascolo, a consumare così troppo suolo, e nel tempo a distruggere il pascolo. Lo vediamo troppo spesso in troppe parti del mondo. Dalla storia umana sappiamo anche che non sempre le comunità distruggono i pascoli comuni (basti pensare alle antiche comunanze delle Alpi e degli Appennini, per restare in Italia, tra cui la millenaria “Magnifica comunità” della val di Fiemme in Trentino, non distante dai luoghi di Chiara), e la ragione principale di ciò è che la logica, le convenzioni e le istituzioni tradizionali erano state evolutivamente pensate e manutenute anche e soprattutto per evitare questo tipo di fallimenti collettivi. L’avanzamento oggi della logica individualistica del mercato capitalistico, però, sta moltiplicando il verificarsi di queste tragedie dei commons: dall’acqua all’ozono, dalle foreste alla finanza. Infatti, anche la crisi finanziaria recente (esplosa il 15 settembre 2008) può essere letta anche come una tragedia di quel bene comune chiamato “fiducia”: si è consumata troppa fiducia privata, scaricando fuori di loro (da parte delle banche e delle grandi imprese soprattutto) il rischio di sistema, finché ad un certo punto la reazione è esplosa. L’Economia nell’“era dei beni comuni” richiede allora una logica di comportamento che sia immediatamente relazionale, che non ragioni nei termini individualistici tipici del paradigma economico dominante. Richiede una razionalità di comunione, espressione di una antropologia relazionale qualificata (come abbiamo ascoltato stamane, e ascolteremo domani).  Per Chiara, infatti, l’essere umano è una realtà comunionale, cioè relazionale, e a più dimensioni: “Sulla terra tutto è in rapporto d’amore con tutto: ogni cosa con ogni cosa” (1949, § 559). Ci sono alcune operazioni fondamentali da compiere per “comunionizzare” la teoria e prassi economica, e renderla adatta a descrivere e a prevedere i comportamenti individuali e collettivi in questa nuova fase storica, al fine di evitare le tragedie presenti e futuro. Alcune (ancora poche) di queste “operazioni” si stanno profilando, e costituiscono il “cuore” del programma di ricerca di diversi economisti impegnati nell’EdC (intesa nel senso ampio che ho specificato). Tra queste voglio accennare qui al concetto di bene relazionale e a quello di povertà. Due temi-esercizio che non toccano altri aspetti fondamentali dell’economia di oggi, tra cui gli aspetti macro del sistema economico, sui quali la nostra riflessione è ancora solo incipiente.

2. I beni relazionali
La scienza economica moderna e ancor più contemporanea non ha generalmente considerato le relazioni umane per il loro valore intrinseco2. Gli economisti le hanno viste (quando le hanno viste)
o come uno sorta di sfondo sul quale si rappresentava la scena del mercato, o come elementi strumentali e funzionali allo scambio o alla produzione di beni e servizi ben indipendenti e separati dalle relazioni umane, beni che sono i tipici oggetti di studio dell’economia. Negli ultimi decenni, però, si sta registrando una nuova attenzione per temi relazionali quali la fiducia, il capitale sociale, le reti o i network, la reciprocità, e si iniziano a trovare parole al dir poco insolite nella tradizione economica, come fraternità, capitale spirituale, motivazioni intrinseche, ecc. All’interno di questa nuova attenzione, e anche grazie allo spazio che essa ha creato all’interno della disciplina economica, Benedetto Gui, uno dei primi economisti teorici ad occuparsi di EdC e delle categorie culturali del carisma dell’unità, introdusse nel 1986 il concetto di “bene relazionale”, in compagnia
2 Un discorso a parte potrebbe essere fatto per autori eterodossi, come Marx o J.S. Mill, che hanno attribuito un ruolo importante alle relazioni, sebbene il concetto di bene relazionale come viene usato all’interno del gruppo di lavoro legato all’EdC, abbia una sua originalità anche rispetto a autori che avevano visto e vedono le relazioni.
(con un leggerissimo primato di qualche mese) di altri autori, tra i quali la filosofa americana Martha Nussbaum, e proprio con lo scopo esplicito di contribuire a teorizzare in linguaggio economico una dimensione centrale del carisma dell’unità. Il tema dei beni relazionali oggi rappresenta un vero campo di indagine teorica ed empirica.  L’idea base del concetto di bene relazionale, che presenta poi diverse varianti tecniche e in parte di contenuto, è attribuire lo status di bene (o di male) anche economico, alla relazione in sé. Ogni relazione umana è un fatto infinitamente più “grande” della sola dimensione economica, ma può essere compresa e descritta anche come un bene economico, cioè di una realtà alla quale le persone attribuiscono anche un valore economico (accanto ad altri valori non economici), e da cui ottengono benessere. Ma quale è lo scopo e il valore aggiunto di una tale operazione metodologica e teorica? Per comprenderlo può essere sufficiente pensare ai problemi (non solo economici), che hanno determinato e stanno ancora determinando quelle analisi economiche che non “vedono” le dimensioni relazionali. Se, ad esempio, quando si pianificano e disegnano luoghi di lavoro, il modello costi-benefici con cui si fanno le scelte “vede” solo i tipici beni e mali economici (tempo, efficienza, rumore, …), si possono realizzare luoghi di lavoro nei quali le relazioni interpersonali vengono mortificate, o distrutte, determinando poi, tra l’altro, anche pessimi risultati economici. Oppure si pensi al tema della grande distribuzione: se un amministratore pubblico si rivolge ad un centro studi per analizzare la convenienza di aprire o meno grandi centri commerciali in periferia, e quindi determinare la chiusura di molti piccoli negozi del centro storico, se questi economisti non vedono il tessuto di relazioni che si creano attorno ai piccoli negozi del centro (di cui usufruiscono, tra l’altro, soprattutto anziani, bambini e i soggetti più fragili), potranno fare calcoli errati, perché nel calcolo mancano alcuni beni. Anche perché dai beni relazionali dipende buona parte del benessere della gente, come mostra, ad esempio, ormai l’abbondante letteratura sulla felicità delle persone. E potremmo continuare con l’analisi economica del turismo, della cultura, moltissimo nei temi della cura e dei servizi alla persona, ma anche del successo dei distretti del Made in Italy, della cooperazione sociale, o delle scelte di cambiare o non cambiare posto di lavoro, il benessere lavorativo, e così via, fino ad arrivare alla misurazione degli effetti dell’EdC dentro e fuori le imprese. Infine, la relazione non va solo declinata nella diagonale IO-TU: esiste però senz’altro, ed è rilevante, anche una dimensione della relazionalità che si snoda sulla diagonale IO-LUI o IO¬LORO, cioè quella relazione che non è, ad esempio, in un ospedale il rapporto tra medico e paziente, ma quei rapporti istituzionali e di governance che fanno sì che quel paziente ben accolto e rispettato da medici e infermieri, possa contare su laboratori efficienti e sul chirurgo preparato. Per non parlare delle relazioni di potere, di comando, organizzative. La relazionalità è ma, le relazionalità sono molte, e tutte importanti per vivere bene, o male.

3. Cura della povertà
La povertà o, meglio, l’indigenza e l’esclusione (la povertà è anche parola del vangelo e dei carismi, e non solo una piaga dell’umanità, perché se liberamente scelta è anche beatitudine), sta oggi di nuovo tornando a crescere in Europa e nel Mondo opulento. Ma le povertà che oggi colpiscono le società opulente come quelle europee presenta nuove forme (che si aggiungono alle antiche), come l’esclusione dalla vita pubblica, il disagio mentale (in grande aumento), sacche di immigrati non integrati, nuove forme di dipendenza come quelle dal gioco d’azzardo, autentica epidemia che colpisce soprattutto i ceti medio-bassi della nostra società, antiche e nuove povertà che hanno in comune la caratteristica di essere, prima di tutto, povertà relazionali: non sono tanto, o soprattutto, povertà dovute alla mancanza di reddito; e anche quando si presentano come povertà di reddito e di ricchezza, la loro radice e quindi la loro cura non si trovano nell’ambito economico, ma in quello relazionale e quindi sociale. Su questo il magistero dell’economista indiano A. Sen, e la sua domanda: “povertà, di che cosa?”, è sempre di grande rilevanza.
L’EdC in questi anni ha sperimentato e sperimenta che la prima cura della povertà è una cura di relazioni, da quelle famigliari a quelle politiche: la povertà non è soltanto un tratto individuale, ma un insieme di relazioni malate che poi determinano anche condizioni individuali di esclusione e miseria. Per questo, la prima cura di ogni forma di povertà è l’offerta di un rapporto di fraternità e di reciprocità, che dona dignità alla persona in difficoltà, e lo aiuta a compiere il primo passo per uscire dalle trappole di povertà, un primo passo che può fare solo lei o lui.  Più in generale, in economie semplici, di sussistenza, dove i popoli uscivano ed escono da forme di miseria endemiche, e dove le relazioni famigliari e comunitarie erano e sono forti e stabili (anche se spesso inique e illiberali: pensiamo al ruolo della donna), per fare uscire le persone dalle trappole di povertà era necessario prima di tutto aumentare reddito pro-capite, beni pubblici (sanità, infrastrutture, …), e beni meritori (la scuola in un modo tutto speciale). Oggi in un’epoca in cui il bene molto fragile e scarso è il bene relazionale, se prima non si curano e ricostruiscono relazioni, i necessari interventi in termini di reddito, beni pubblici e meritori restano spesso inefficaci – come tanti decenni di aiuti pubblici, anche in Europa, ci stanno mostrando. Occorre allora cambiare approccio, e l’esperienza dell’EdC, che parte dalla cura delle relazioni come precondizione di ogni progetto di sviluppo umano, può essere un piccolo modello.  L’EdC dice poi che prima della povertà (come categoria) esistono i poveri, e senza l’incontro con la persona del povero, la povertà non si cura – al massimo la si può gestire, immunizzandosi da essa. La fraternità francescana ha un momento solenne di inizio quando Francesco abbraccia e bacia il lebbroso di Assisi. La cura tipica della fraternità non è mai immune, ma si lascia contaminare dal povero, che quindi diventa veramente fratello. Nell’EdC questa esperienza di abbraccio la si vive nell’aiuto concreto e nell’esperienza comunitaria (che è sempre la precondizione essenziale), ma anche, e forse soprattutto, nel non darsi pace finché non si riesce ad offrire ai poveri un posto di lavoro nelle nostre imprese. Finché non si riesce a lavorare, si resta sempre indigenti. Inoltre, Chiara ci fa scoprire che l’impresa ha una anche una vocazione di lotta all’esclusione e alla povertà. L’imprenditore non può solo accontentarsi di pagare le tasse e rispettare la legge: in questi tempi di crisi deve ancora usare il suo talento e la sua vocazione imprenditoriale per combattere miseria ed esclusione, creando nuovo lavoro. Quando Chiara ha proposto alle imprese di reinvestire utili nell’impresa (una terza parte) per la creazione di posti di lavoro, stava dicendo qualcosa di molto nuovo, che cioè l’impresa combatte la povertà anche, e soprattutto, creando lavoro, e quindi includendo produttivamente le persone, e non primariamente con la filantropia (del 1-2% dei profitti: che fine fa il restante 99%?), che dal modello capitalistico viene invece sempre più presentata come la regola per occuparsi degli esclusi. In questo l’EdC si ricollega, tra l’altro, al grande movimento cooperativo europeo, di cui il Trentino di Chiara è una delle sue terre più feconde.

Conclusione
Due esempi, due esercizi, per dire che un carisma che mette l’accento sulla natura relazionale dell’essere umano porta chi ne partecipa e lo vive, economisti in questo caso, a vedere cose che restano ai più invisibili, a porre domande nuove, e a suggerire qualche soluzione. Per il dono che ho ricevuto di aver potuto accompagnare Chiara negli ultimi dieci anni di fondazione dell’EdC e nella Scuola Abba, sono convinto che la parte più interessante e innovativa dell’economia di Chiara debba ancora incominciare: la penetrazione nel cuore del mistero relazionale della persona, e quindi dei rapporti economici e sociali, potrà suggerire a presenti e futuri economisti, in dialogo con le altre, di scoprire e delineare modelli, in questa era della storia umana dove i beni più importanti diventano i beni comuni, e dove c’è un urgente bisogno di nuove categorie economiche che diano meglio conto delle azioni di quell’essere relazionale che chiamiamo persona, e che siano capaci di ridurre la miseria e l’esclusione, che restano la grande ferita e la grande responsabilità della nostra epoca.