di Pasquale Ferrara

 

Una delle questioni che è emersa nella crisi greca è quella della democrazia. Il referendum indetto da Tsipras  appare, da questo punto di vista, come il legittimo ricorso al popolo in un momento in cui occorre compiere scelte difficili. Tutto bene dunque? Quasi. La questione è che le conseguenze di tale scelta potrebbero avere effetti per l’intera Eurozona e, in prospettiva, per l’intera Unione Europea.  Non sappiamo naturalmente quale sarà il responso delle urne. Può darsi che il popolo greco dica “si” alle misure di austerità non per convinzione ma per non cadere dalla padella alla brace, e cioè una crisi valutaria e finanziaria, oltre che di credibilità economica internazionale, che potrebbe ulteriormente aggravare la già tragica condizione del Paese. Se dovesse prevalere il “no”, è illusorio pensare che le conseguenze sarebbero limitate al rapporto tra la Grecia e l’Eurozona. L’onda d’urto politica si abbatterebbe su tutta l’Europa e sulla sua credibilità come area di integrazione. Certamente, il quesito referendario riguarda le sole misure proposte (o imposte) dall’Eurogruppo alla Grecia; non contempla esplicitamente né l’uscita della Grecia dall’Euro né mette in dubbio la sua partecipazione all’Unione Europea. E’ un referendum sulle politiche che la Grecia dovrebbe adottare per rimanere “solvibile”. Da questo punto di vista, il referendum del 5 luglio è di natura apparentemente circoscritta, se non per gli effetti a catena che potrebbe scatenare. Non dimentichiamo che “pende” (per il 2017) un referendum inglese in cui si chiederà ai cittadini inglesi se intendono o meno restare nell’Unione Europea, mentre altri Paesi che hanno già adottato misure drastiche di ri-aggiustamento dei conti pubblici (come Spagna, Portogallo, Irlanda) guardano alla Grecia per capire se l’Unione intenda adottare due pesi e due misure, commettendo una palese ingiustizia, in considerazione dei sacrifici imposti ai loro popoli. Inoltre, da tempo si manifesta, in Europa, una linea di faglia tra Nord e Sud, tra Paesi-formica e Paesi-cicala, con tutto l’armamentario di reciproche invettive e triti luoghi comuni che conosciamo.  
Non ho nulla, naturalmente, contro il referendum. Quando i cittadini votano è sempre una festa per la politica. Il referendum mi piace talmente che ne proporrei uno pan-europeo. Chiamiamo al voto su questioni fondamentali in uno stesso giorno e con le stesse regole elettorali tutto il popolo europeo, e in questo caso almeno tutti i cittadini dei Paesi che partecipano all’Euro, per capire cosa ne pensano delle politiche di austerità e della disciplina di bilancio.
Bisognerebbe evitare quello che avvenne – anche se in una situazione assai diversa – per i referendum sulla costituzione europea, bocciata dagli elettori francesi e olandesi, e tuttavia approvata in molti altri Paesi. In quel caso, una minoranza dei cittadini europei bloccò, quasi esercitando un diritto di veto, un processo che avrebbe permesso, paradossalmente, di avere istituzioni e procedure europee più leggibili e trasparenti. Ecco un caso in cui un istituto di democrazia partecipativa come il referendum rischia di divenire, quanto agli effetti, uno strumento di prevaricazione di una minoranza sulla maggioranza.
In qualche modo, la scelta di Tsipras – che invita l’elettorato a votare “no” – polarizza due momenti del processo politico europeo, e cioè negoziare da una parte, votare dall’altra. Ora, nessun negoziato che io conosca ha mai tratto beneficio dal trasferimento delle questioni complesse dal tavolo delle trattative al seggio elettorale.  Il voto può essere la conferma della sagacia politica di chi lo propone, oppure può trasformarsi in una trappola, ma in ogni caso irrigidisce le posizioni perché è una strada senza ritorno.  Lo abbiamo visto già in atto, questo progressivo irrigidimento, sia nelle grandi Capitali (Berlino in testa) che nelle Istituzioni di Bruxelles. Un negoziato conosce fasi alterne, lo scenario può cambiare, posizioni rigide possono diventare improvvisamente flessibili, ma una volta che “il popolo ha parlato” appare pressoché impossibile prescindere dal risultato. Ripeto, la consultazione popolare è di per sé un valore, ma va anche considerato il contesto in cui avviene. E quindi non si tratta di tessere le lodi della democrazia a scapito della diplomazia. Per come è fatta l’Unione Europea, sono necessarie entrambe, ma ciascuna ha il suo ruolo e il suo momento. Gli economisti e i politologi hanno studiato, ad esempio, le conseguenze di un’asimmetria nelle informazioni nel mercato o tra chi gestisce le scelte politiche e di chi le osserva dall’esterno e le subisce. Mi si dirà che persino i processi elettorali rappresentativi comportano margini di incertezza sulle scelte che gli eletti effettivamente compiranno una volta insediati. Ma almeno le elezioni non sono monotematiche, c’è una gamma di opzioni e di programmi, e quindi tutto sommato il rischio si riduce o si distribuisce su più fronti. In una consultazione referendaria secca la scelta è di tipo binario, si o no, mentre le questioni sono, come nel caso greco, ben lontane dall’essere riducibili ad un’alternativa tra bianco e nero.  Che dire, ad esempio, della gestione “consociativa” dell’economia greca, che per decenni ha puntato ad una politica distributiva senza mettere in atto parallelamente una politica “estrattiva” nei confronti dei redditi più alti?  
A me pare che la crisi greca sia senza dubbio un’occasione fondamentale per riportare al centro del dibattito il tema cruciale della democrazia nell’Unione Europea. La soluzione del dilemma consisterebbe in un passaggio di livello, che paradossalmente in questo momento non solo non è sostenuto, davvero, da nessun governo europeo, ma è anche osteggiato da ampie fasce dell’opinione pubblica europea, che all’Unione Europea attribuisce le sue colpe evidenti, ma anche quelle che provengono dai cambiamenti epocali che stanno avvenendo a livello planetario. In questi processi l’Europa, sostanzialmente divisa in stati e staterelli, e la cui classe politica è alla ricerca di risultati di corto periodo e di natura essenzialmente localistica, rischia di svolgere un ruolo secondario. Come ha scritto Sergio Romano, “finché sarà un sodalizio in cui ogni socio agisce soltanto quando è direttamente coinvolto, l’Europa dirà al mondo, implicitamente, che gli interessi di un Paese non sono necessariamente quelli di tutti. E continuerà ad essere una mezza potenza, incapace di valorizzare le virtù e le risorse di cui dispone.”
Come nel romanzo di Musil, L’uomo senza qualità, la situazione attuale dell’Unione assomiglia a una “Azione Parallela”, cioè ad un’iniziativa politica inesistente. Per accrescere la democrazia in Europa occorre il passaggio a un livello più avanzato, funzionale e integrato, di organizzazione politica, nella quale i cittadini europei possano davvero scegliere i governanti europei e dove questi ultimi debbano dare conto del loro operato, soprattutto in ambito economico. La democrazia in un solo Paese rischia di divenire non solo insufficiente, ma illusoria. Partita dalla Grecia, l’avventura della democrazia europea si gioca il suo futuro nuovamente sulla Grecia, ma il suo orizzonte non può più essere solo Atene, deve essere  l’Europa.

fonte: http://www.cittanuova.it/c/447841/La_Grecia_e_il_referendum1.html#

fonte: http://www.cittanuova.it/c/447853/La_Grecia_e_il_referendum2.html.