Franz Kronreif, Vienna
Photo credit: Dimitry Anikin – Pexels
Vienna è cresciuta soprattutto negli ultimi decenni del 1800. In quegli anni chi studiava i piani di sviluppo della città prevedeva una popolazione di 8 milioni di abitanti con servizi e infrastrutture idonei; oggi invece Vienna si è fermata sotto i 2 milioni di abitanti e l’intera Austria non supera i 9 milioni. Alla fine del ‘900 le esigenze di riqualificazione urbana della capitale si erano fatte urgenti, in particolare in alcuni contesti: c’erano quartieri abitati soprattutto da persone nate sul posto, anziane e impoverite; altrove, aumentavano gli immigrati e le famiglie numerose ristrette in appartamentini affollati. L’Amministrazione di Vienna aveva già creato una nuova istituzione sociale per far fronte a questa situazione, soprattutto perchè la popolazione locale continuasse a vivere nell’ambiente in cui era nata. Ma mi rendevo conto che serviva una maggiore cooperazione.
In questo contesto, la mia professione di architetto e urbanista mi offriva risorse e competenze che potevano far emergere delle prospettive innovative e, del resto, è così per ogni soggetto che è radicato in un territorio. Il mio studio di architettura si era specializzato da anni nel settore delle ristrutturazioni; forse per questo, nel 2001 ho avuto l’incarico dall’Amministrazione della città di elaborare alcuni interventi urbanistici cominciando da un quartiere a rischio nelle vicinanze della stazione ovest. In quella zona i problemi apparivano particolarmente concentrati: 5.000 abitanti in 115 condomini, criminalità, droga, prostituzione, persone anziane e povere, marginalità delle famiglie immigrate, mancanza di spazi verdi, ecc.
D’accordo con i colleghi, abbiamo deciso di guardare non solo alla riqualificazione urbanistica ma anche alla rigenerazione del tessuto sociale. Ci era chiaro che l’obiettivo principale non erano i metri cubi di costruito ma la possibilità di vita delle persone, e dunque bisognava ripartire dalle relazioni sociali, perché la qualità di un sistema complesso si misura a partire dai suoi punti deboli e dunque si trattava di individuare i nodi decisivi della tessitura sociale, là dove spesso la tensione è più forte e i bisogni sono più dolorosi.
In genere, prima dell’approvazione dello strumento urbanistico dettagliato, i principali portatori di interesse hanno la possibilità di conoscere il progetto in elaborazione e di porre domande agli Uffici competenti: il loro coinvolgimento è cruciale. Ma questa volta l’Amministrazione che li aveva convocati aveva ricevuto solo 5 risposte… e tutte negative. A quel punto ho proposto ai miei collaboratori di cambiare metodo, di cominciare dall’ascolto delle persone andandole a cercare nel quartiere. Abbiamo incontrato i proprietari dei condomini ma anche gli inquilini, lasciandoci interpellare soprattutto da chi viveva più ai margini, anche da chi, qualche volta, non era nemmeno in grado di avanzare una osservazione. Abbiamo raccolto la storia di tanti dedicando 6 lunghi mesi a questa operazione e ci siamo guadagnati la loro fiducia; la gente del quartiere si è sentita parte attiva in un processo politico che in genere viene ignorato all’inizio e contestato alla fine. E questo ha funzionato, perché alla presentazione pubblica il piano è stato approvato all’unanimità.
Abbiamo potuto proporre un insieme di misure che fino a quel momento sembravano impossibili. E’ stato così, per fare un esempio, quando abbiamo concordato la demolizione di due case con il proprietario, per rispondere al grande bisogno di spazi verdi nel quartiere e realizzare un piccolo parco pubblico. Anche quando i percorsi si facevano complicati e gli interessi in gioco pesanti, la possibilità di re-immaginare un quartiere a misura d’uomo ci ha spinto a dare il massimo. E dopo qualche tempo, uscendo da una visuale strettamente urbanistica, è stato possibile coinvolgere anche altri soggetti. Con alcuni studenti di scienze motorie dell’Università di Vienna, e di architettura dell’Accademia di Belle Arti, abbiamo avviato un altro progetto: “la città mobile”, per una mobilità urbana più rispettosa delle esigenze dei bambini. E’ seguita una giornata pubblica in cui abbiamo inaugurato l’apertura di numerosi spazi per il gioco e l’interazione tra famiglie di culture diverse; vi hanno partecipato 800 bambini circa, tra i 9 e i 14 anni, e molte famiglie immigrate.
In una fase successiva, lavorando per tre giorni insieme ad un gruppo di ragazzi impegnati in un progetto dal titolo “Coloriamo la città”, abbiamo sviluppato alcune idee urbanistiche per un quartiere centrale, soprattutto per la piazza antistante un centro scolastico. Lì è nata un’altra idea: promuovere una festa di capodanno con tutte le persone del quartiere, aperta anche ai profughi e ai senza tetto del quartiere. Con loro abbiamo cercato di reinterpretare gli spazi al servizio di una socialità positiva, includente. Poi sono stati i giovani a prendere in mano l’iniziativa ed è nato l’appuntamento domenicale “Social Sunday”.
Ci sono voluti anni di lavoro, ma la struttura del quartiere è cambiata e anche nelle aree confinanti si è mosso qualcosa, con un processo interessante di espansione della metodologia e dei risultati. Nel frattempo, al nostro studio è stato conferito più volte il “Premio per il rinnovamento della città” e sono seguiti altri incarichi urbanistici da parte dell’Amministrazione. Non ho mai pensato di occupare uno spazio che non fosse mio: la funzione dell’amministrazione politica della città aveva i suoi strumenti e le sue responsabilità, ma penso di poter dire che anche il nostro ruolo ha avuto un’incidenza politica e responsabilità precise, facilitando il dialogo tra cittadini e istituzioni come può fare un “mediatore evanescente”, per comporre le tensioni caratteristiche dello strumento urbanistico e dare armonia alla costruzione sociale.
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